La luce dopo il pogrom
di Siegmund Ginzberg
da
l'Unità del 19/11/2003
Chi non ha avuto paura
da bambino? Quando il
mondo ridiventa un'incognita, riaffiorano
le angosce primordiali. Ma i
ricordi d'infanzia contengono anche
l'antidoto. Possono essere un modo
per capire meglio il presente, prima
ancora che di raccontare il passato.
È quel che fa Victor Magiar in E
venne la notte. La notte è per definizione
buia. Ma poi è sempre seguita
dal giorno. Nella cultura ebraica il
nuovo giorno inizia sempre al calare
della notte, il sabato col calare della
sera il venerdì. Può anche succedere
che il peggio venga dopo l'alba, come
l'altro giorno a Istànbul. "Ma dopo
il buio c'è sempre la luce, despuès
la oskuridàd ày sièmpre la luz, esta es
la ley, questa è la Legge, la Toràh
degli ebrei". Ebrei in un paese arabo,
suona il sottotitolo. È la Libia. Ma
potrebbe essere qualsiasi dei paesi
che si affacciano sul Mediterraneo.
L'aria, il profumo di salsedine marina,
i sapori impressi
nel cervello, forse anche i
cattivi odori, possono essere gli
stessi che impregnano il Bosforo o
Lampedusa.
Il racconto comincia in una
scuola. Bambini ebrei, arabi, Ivy
la greca di cui è segretamente innamorato
il protagonista sefardita,
Jenny l'americana, Sanchez lo spagnolo,
Nàdan il serbo, Sayìda (Fortunata,
in arabo), figlia di un notabile islamico, la
sua compagna di banco Mazhàla (Fortunata
in ebraico), figlia di ebrei della Hara,
la città vecchia. "Una classe, un mondo".
Nove modi diversi di dire cocomero: karpùs,
karpuzi, batìh, dellàh, watermelon, pastèque,
sandìa, lubènica, anguria, diversità
che "fanno bene al cervello". L'insegnante
di arabo, Warda, che insegna che Annibale
difendeva la libertà del suo popolo,
la maestra italiana, Giulia, che invece gli
parla di come Roma gli avesse portato la
civiltà, le suore cattoliche che mediano.
Poi la rottura, a ciel sereno: le voci che
irrompono dalla strada incitando a "buttare
a mare gli ebrei", l'ebrea Mazhàla che
piange, l'araba Sayìda che si mette anche
lei a singhiozzare perché voleva consolare
l'amica, accarezzarle i capelli, ma quella le
ha risposto: "Non toccarmi".
Ne so qualcosa anch'io. In comune
con Victor, l'autore di questo splendido
libro pubblicato da Giuntina (276 pagine,
12 euro) abbiamo che "negli ultimi cinquecento
anni nessuno,
nella famiglia
di mio padre, è morto
nella città dove è
nato". Conosco "le
continue separazioni,
nostro male
oscuro, fardello genetico
passato con
la ninna nanna".
Mi hanno angosciato
sin da piccolo i
traslochi, anche
quando non erano
forzati. Ho imparato,
sin dalla culla,
che le cose sono
molto più complicate
di quanto talvolta
le si vuole far apparire,
non hanno
mai una sola faccia.
Forse per questo sono
portato a tormentare
anche i
miei lettori, a costo
di irritarli, complicandogliele
ancor
di più anziché semplificargliele.
A
scuola, le crociate
prima me le hanno
spiegate a un modo,
poi nel modo
opposto. Ho imparato
a non prendere
mai per buona la
prima storia che ti
raccontano. In prima
elementare ogni
mattina cantavamo
inni patriottici di
fronte al busto di Atatürk. Non sapevo le
parole, ma muovevo la bocca: forse per
questo non ho mai imparato a cantare. In
terza si pregava tutti, in latino, di fronte
al crocifisso. Presi l'abitudine di segnarmi.
Mio padre, che era ateo e non frequentava
la sinagoga, mi disse: se hai interesse
alla religione forse è meglio che cominci
dalla tua. Ho iniziato presto a trovarmi in
difficoltà nell'esplorazione delle identità.
Quando i compagni di scuola a Istanbul
mi chiedevano: ma tu cosa sei?, rispondevo:
italiano. Quando ci trasferimmo in
Italia, rispondevo: turco. C'è voluto tempo
perché rispondessi: ebreo. Pensavo e
parlavo turco, molto prima di parlare e
pensare in italiano. Strano: della lingua
madre mi sono rimaste chiarissime solo
le parolacce e i nomi per il cibo. In casa di
parlava soprattutto ladino, il castellano
viejo (con la j dolcissima, non aspirata)
dei sefarditi espulsi dalla Spagna a fine
'400. Mia nonna materna, discendente di
quelli rifugiatisi presso il sultano di Costantinopoli,
parlava solo judio espanol,
nessun'altra lingua, nemmeno il turco o
l'ebraico. Scriveva solo in lettere ebraiche,
non conosceva l'alfabeto latino, né quello
arabo persiano. Mio padre, nato alle foci
del Danubio, parlava yiddish, faceva i conti
in tedesco. Il compromesso lo trovarono
prima col francese, poi con l'italiano.
Quando i miei discutevano di cose di cui
preferivano non mi impicciassi, passavano
all'armeno o al greco. Qualche volta,
quando i figli erano ancora piccoli, mi è
capitato di scambiare qualche battuta con
mia moglie in cinese (il suo bergamasco
per me resta molto più difficile).
Non abbiamo mai avuto tradizione re
ligiosa in famiglia. Non mi sarebbe mai
capitato di chiedere ai miei se fossimo
"buoni ebrei". Ma non mi avrebbe sorpreso
una riposta come quella che danno al
piccolo Victor: "Komo no! Djudiòs sin fanatismo
(come no, ebrei senza fanatismo)".
"Ecco il tabù di famiglia, il fanatismo,
morbo che per secoli ha falcidiato
l'Europa ed è approdato, invincibile in
Medio oriente. Può colpire chiunque, individui,
gruppi di persone o popoli interi;
non seleziona per età, religione, censo,
sesso, nazionalità, lingua: è la più universale
fra le malattie contagiose, la più assassina
tra quelle devastanti". Avessi dimestichezza
di colloquio col Signore, lo ringrazierei
ogni giorno per avermi su questo
vaccinato. Tremendo tra i malintenziona
ti, il fanatismo è non meno orrendo e
spaventoso quando si manifesta tra la tua
gente, quelli dalla tua parte, tra i sicuri di
essere dalla parte del giusto e gli assolutamente
bene intenzionati. Ai fanatici preferisco
mille volte i cinici. La tolleranza non
è facile né automatica. Non basta predicarla
da soli, bisogna che ci stia anche
l'altro o gli altri. "Per convivere ci vuole
tolleranza, pazienza ma anche un briciolo
di furbizia". Ma a volte non basta tutta la
furbizia del mondo.
Raccontare attraverso gli occhi di un
bambino presenta grandi vantaggi. Rimanda
ad una condizione che ha accomunato
tutti i nostri simili del genere umano,
amici e nemici, buoni e cattivi. Fa leva
sulla forza delle favole. Consente, facendo
leva sull'ingenuità infantile, di far prevalere
il senso dello humour (il sale di tutta la
grande letteratura) anche nel trattare le
circostanze più tragiche (Roberto
Benigni ci ha provato con
l'Olocausto). Ma non per questo
fa sconti, perché, come è noto,
i bambini possono essere cattivissimi,
anche molto più crudeli
degli adulti. Ha la freschezza
dell'innocenza, la semplicità dei
ricordi indelebili, e, insieme libera
dall'ossessione di dover per
forza dire tutto, quadrare il cerchio, arrivare
a conclusioni categoriche. Ad un
adulto tornato nei panni del bambini è
più facile che ad un adulto ammettere che
"tutto ciò che vedi o che senti non è mai
la verità intera, ammesso che esista; rappresenta
piuttosto porzioni di più verità
o, meglio, sfumature della stessa verità".
Esalta il ruolo dell'interpretazione, della
riflessione, rispetto a qualsiasi "verità rivelata".
"Un bravo rabbino non può rinunciare
alla sua naturale inclinazione alla
esegesi": così si giustifica il fatto che il
vecchio rabbino di Tripoli Salomòn Toledano
"inizi a raccontare storie caotiche e
ancora più fantasiose di quelle sentite
qualche ora dal giovane..., confondendo
avventure, date, eserciti: era suo diritto".
Diritto, rivendicato, di parabola e di interpretazione.
La narrazione, grazie a questo artificio,
procede con crescente efficacia, tale da
tenere il lettore col fiato sospeso capitolo
dopo capitolo (provare per crederci). Ne
emergono personaggi straordinari.
Si conclude con
sangue versato, una fuga
e un esilio. Ma colpisce
l'assenza anche di una
punta di odio, forse persino
di rancore e disprezzo,
per i responsabili. Eppure
non è il "Dio mio perdonali
perché non sanno
che cosa fanno". Tanto
meno la rassegnazione
(gli eroi e le eroine di questo
libro sono dei combattenti).
Avevo appena finito di
leggere questo libro (con
la chiusa, da Sarajevo, su
una delle tante guerre assurde,
"ammesso che ne
esistano di sensate", dove
"uccidersi tra fratelli, inventando
differenze che
non esistono è pura follia"),
che le immagini di
quelle strade di Istànbul lorde di detriti,
sangue e brandelli di carne umana, mi
hanno fatto un effetto di déja vu. Quelle
stesse strade le avevo già viste così quando
avevo 7 anni. Il giorno dopo una sommossa.
Quasi mezzo secolo fa. No, non ce l'avevano
con gli ebrei. Per una strage di ebrei in
Turchia si sarebbe dovuto aspettare al
Qaida e la guerra all'Irak. Ce l'avevano
con gli "stranieri", tutti gli "stranieri",
greci, armeni, arap (che nella Turchia di
allora era come dire "neri"). Il nostro era
un cognome "straniero". In quegli anni
gli estremisti islamici venivano incoraggiati
per tenere a bada laici, progressisti e
"comunisti". Mio padre aveva perso tutto.
Riuscì a farsi prestare l'occorrente per
un passaggio in nave, con la famiglia, fino
a un porto italiano. Non c'era ancora la
BossiFini.