Sansonetti dice un'altra cosa di sinistra
Ammetto di essere poco oggettivo, ma Piero Sansonetti è una delle ultime persone davvero di sinistra che restano in giro. Mi piace sempre quello che scrive su l'Unità e mi piace come lo scrive. Ma l'articolo comparso su l'Unità di oggi (27 Dicembre 2003) a titolo "Voci dal silenzio" mi è piaciuto ancora di più. Lettura talmente consigliata che ho deciso di "ritagliarlo" e conservarlo.
Voci dal silenzio
di Piero Sansonetti
Oggi moltissimi cittadini italiani
sanno come è andata
la vertenza dei ferro-tranvieri. Sanno
che il loro contratto è stato violato
per due anni, e che ciascuno
di loro vantava crediti per migliaia
di euro dalla azienda. Sanno anche
che i tranvieri, nonostante l'adeguamento
strappato dai sindacati
(e che non tutti hanno accettato)
ricevono uno stipendio molto leggero,
non certo al livello della durezza
del loro lavoro. Sanno che
molte famiglie di tranvieri vivono,
magari in quattro persone, con ottocento
o mille euro al mese, e la
metà - o di più - se ne va per
l'affitto. Quindi sono sotto la soglia
di povertà, anche se hanno un
impiego fisso e di notevole importanza.
Come mai moltissimi italiani,
che fino a un mese fa ignoravano
tutto sul contratto dei
tranvieri, ora lo conoscono così bene?
Perché i tranvieri milanesi (e
poi di altre città), con un atto sovversivo
e illegale, hanno scioperato a
gatto selvaggio e paralizzato le città,
creando enormi disagi tra la gente.
Quanti sono gli italiani che sanno
che i metalmeccanici della Fiom
non hanno ancora firmato il contratto
e sono in lotta da due anni? Quanti
sanno che alla Fincantieri (fabbricano
navi) hanno già scioperato per
74 ore, inutilmente? Quanti sanno
che alla Rer di Venafro, da due mesi,
ottanta lavoratori presidiano lo
stabilimento, giorno e notte, ininterrottamente,
contro i licenziamenti?
Quanti sanno che gli stpendi dei metalmeccanici
non sono superiori a
quelli dei tranvieri? Non le sa nessuno
queste cose. E quasi nessuno sa
neppure che lo stabilimento della
Fiat aMirafiori, con ogni probabilità,
chiuderà presto i battenti. I giornali
non ne parlano, le Tv hanno
ben altro a cui pensare, i salotti di
Vespa pullulano di ceto politico e di
uomini dello spettacolo e non trovano
il tempo - si capisce - per i problemi
sociali. Cosa se ne deduce? Semplicemente
questo: che se i lavoratori
vogliono farsi vedere, se vogliono
avere accesso ai canali dell'informazione,
hanno una sola via: la sovversione.
Cioè devono spingere il conflitto
sociale e sindacale oltre le leggi.
Devono alzare moltissimo la voce,
è l'unica politica che paga.
Questi problemi sono stati posti l'altro
giorno dalla Fiom (il sindacato
dei metalmeccanici) nel corso di
una riunione con un gruppo di giornalisti.
Per la Fiom c'erano Gianni
Rinaldini (il segretario) e Giorgio
Cremaschi. Per il mondo dell'informazione
c'erano una decina di giornalisti
di testate di sinistra, un paio
della Rai, e poi c'erano Paolo Serventi
Longhi che è il segretario della
Fnsi (il sindacato dei giornalisti) e
Roberto Natale dell'Usigrai (giornalisti
rai).
Cremaschi ha posto il tema dell'invisibilità
del lavoro. Ha detto che questa
invisibilità è gravissima per due
ragioni. La prima è l'indebolimento
dei lavoratori e delle loro organizzazioni,
che essendo stati del tutto
espulsi dal circuito dell'informazione
hanno perso gran parte del proprio
potere. E' in questo modo che è
passata la spinta reazionaria confindustriale,
quella che in questi anni
ha peggiorato in modo drastico le
condizioni di lavoro e il livello salariale.
La seconda conseguenza dell'invisibilità
è la necessità di elevare
il livello del conflitto, e questo comporterà
dei prezzi forti per la società.
Rinaldini e Cremaschi hanno detto
che l'oscuramento del lavoro sta
dentro un disegno. Questo: far diventare
il lavoro un semplice fattore
della produzione, o - nel migliore
dei casi - una "risorsa umana" a disposizione
del profitto. Questa è la
nuova ideologia che emerge. Anzi, è
già emersa: l'abolizione del valore-lavoro.
Se il lavoro è solo una funzione
dell'impresa e del profitto non
c'è ragione per mettere sui giornali e
in tv il "fattore": tanto vale mettere
l'impresa e il profitto dei quali il
lavoro è solo una parte trascurabile
e quindi poco imteressante. E così le
pagine economiche dei giornali e
delle Tv diventano pagine finanziarie.
L'uomo e il lavoratore scompaiono.
Dei quasi trecento contratti nazionali
delle categorie dei lavoratori
dipendenti non c'è traccia.
Eppure il lavoro è stato il terreno di
maggiore impegno di questo governo.
Il quale ha fatto una sola legge
davvero importante: la legge 30 (la
cosiddetta legge-Biagi) che modifica
tutti i rapporti di lavoro subordinato,
aumentando enormemente i
diritti dell'impresa e annientando
quelli del dipendente. I prossimi passaggi
saranno la riforma-taglio delle
pensioni e poi l'abolizione dei
contratti nazionali di lavoro. E quindi
un ulteriore fortissimo indebolimento
dei sindacati.
Possibile che questa gigantesca opera
di ristrutturazione del lavoro e
dell'impresa - e dunque del cuore
vbivo della società - avvenga nel silenzio
dell'informazione? Che sia
considerato un fatto trascurabile,
mentre è l'aspetto politico centrale
di questa fase che viviamo? Di chi è
la colpa: tutta di Berlusconi e della
legge-Gasparri? Sia i dirigenti dei
metalmeccanici sia i giornalisti hanno
detto di no. Il problema è molto
più antico e va di pari passo con la
crisi verticale dell'informazione, che
ha portato ad un vero e proprio divorzio
tra testate giornalistiche e società.
Oggi giornali e Tv parlano solo
di ceto politico ed economico e
non sono mai scossi dalle cose che
avvengono. Da quelle che una volta
si chiamavano notizie: le notizie sono
ormai del tutto assenti da giornali
e Tv. I giornalisti contano molto
poco: non sono più considerati portatori
di notizie, o di specialismi, ma
semplici "funzionari" della macchina
giornale. Questo crea le condizione
per la cancellazione del pluralismo
e dell'informazione sociale. E'
un processo che è iniziato molto prima
della vittoria di Berlusconi: sia la
crisi della stampa e della tv, sia la
crisi dei rapporti sindacali, sia l'ocuramento
dei problemi sociali, sono
tutte cose che nascono almeno dieci
anni fa e si rafforzano durante gli
anni dell'Ulivo. Da questi punti di
vista la Tv dell'Ulivo non era molto
migliore di quella di Berlusconi. Il
ceto politico, a sua volta, quando si
occupa di pluralismo si occupa solo
di se stesso: quanti minuti a questo
partito, quanti a quello, quanta pubblicità
a quel gruppo editoriale e industriale,
quanta a quell'altro. La vera
materia del contendere - il pluralismo
dei fatti, dei lavori, dei punti di
vista, delle culture - non interessa a
nessuno.
Come si esce da questa stretta? Sono
state avanzate varie proposte. E' stato
messo in discussione il funzionamento
centralizzato e gerarchico dei
giornali, si è parlato della necessità
di collaborazione tra operatori e
utenti dell'informazione. E' stato
ipotizzato uno sciopero alle rovescia
nelle televisioni e il ritorno nell'agenda
sindacale dei temi che erano forti
negli anni settanta e ora sono spariti:
il controllo collettivo della linea
editoriale. Per ora sono parole. Contano
poco. Però è una novità: fino a
pochissimo tempo fa nessuno le pronunciava
queste parole, e si dava
per scontato di vivere nel migliore
dei mondi possibili. In un mondo
informatissimo. Invece è un mondo
che non sa niente.