UN PAESE FRANTUMATO
di Agazio Loiero
La politica italiana presenta
spesso aspetti contraddittori,
a volte tragici e a volte comici. In
certi particolari casi, contraddittori,
tragici e comici insieme. A tale
densa categoria appartiene il tempo
politico che oggi l’Italia vive.
Parliamoci chiaro. Il rischio che il
paese si balcanizzi è altissimo.
Bossi sta spingendo in questi giorni
per una riforma costituzionale che,
oltre alla devolution, di fatto contenga
anche il Parlamento della Padania.
Intende inserire nell'ordinamento della Repubblica assemblee
esterne in grado sostanzialmente di contestare al Parlamento
nazionale l'attuale criterio di distribuzione delle risorse nel
paese. Esattamente, se ci è permessa un'amarissima soddisfazione,
ciò che questo giornale ripete da tempo immemorabile.
L'antico rovello di Bossi, volto a etichettare il sud come territorio
di parassiti dediti a mungere, attraverso il trucco della perequazione,
ordito da Roma ladrona, le risorse prodotte dal Nord,
riprende forza con gli emendamenti presentati docilmente dal
senatore d'Onofrio l'altro ieri in Senato. Il capo della Lega neanche
viene sfiorato dall'idea che gli italiani siano allibiti di fronte a
ciò che sta avvenendo in queste settimane a Parma, città adagiata
nel cuore della Padania felix. Sa bene che gli italiani dimenticano
in fretta. C'è qualcuno che ricorda più quello che è capitato, solo
qualche anno fa, nell'ex-Jugoslavia? Nessuno. La memoria degli
italiani in genere dispone di compiacenti strategie d'archiviazione,
che respingono ogni fastidioso accidente che ostacola il quieto
vivere, gli agi conquistati. Ma è appunto tale indifferenza a
rivelare il punto in cui tragico e comico si fondono, facendo
esplodere contraddizioni stridenti. Vediamone qualcuna. Nel
centrodestra, un personaggio colto, di non comune onestà come
Domenico Fisichella, si è, nei giorni scorsi, appellato allo schieramento
politico avversario nel tentativo di fermare Bossi e il suo
disegno di rottura dell'ordinamento unitario del nostro paese.
Un gesto disperato, ove si consideri che, a frantumare l'Italia è la
sua parte politica, più precisamente il governo di cui il suo
partito è componente, almeno sul piano formale, non secondaria.
Fini, leader di Alleanza nazionale, ricopre, come è noto,
nell'attuale esecutivo, la carica di vicepremier. Oh, intendiamoci.
Non penso affatto che Fini e i suoi vogliano frantumare il paese.
Temo però che, per come si sono assestati gli equilibri politici
nella Casa delle libertà, non dispongano affatto degli strumenti
per opporsi alle follie di Bossi e di Tremonti.
Cosa capita invece nel centrosinistra? Qui, mentre il capo della
Lega cerca di portare a compimento il suo progetto secessionista,
che meriterebbe qualcosa di più incisivo di una mobilitazione
dei girotondi, il centrosinistra appare immerso nelle beghe prodotte
dalla lista unitaria. La quale, ideata oltre sei mesi fa per
offrire ai propri elettori un'immagine di compattezza della coalizione,
ha raggiunto picchi di disunità mai sfiorati in passato. Un
congegno di autolesionismo così perfetto da apparire inventato
dagli avversari.
Vediamo cosa capita adesso sul versante dei poteri istituzionali
neutri. Scriviamo queste cose con il consueto rispetto, ma con
rabbia crescente. Questa Presidenza della Repubblica è stata contrassegnata
dal ritorno alla patria, ai suoi simboli, ai suoi vessilli.
Sicuramente, la scelta più felice compiuta da Ciampi in questi
anni. Un lavoro di scavo nelle coscienze, lento e difficile, perché
l'amore per il proprio suolo, essendo il prodotto di una storia,
non s'inventa dalla sera alla mattina e anche perché, usato in
forma esasperata, quell'amore può generare conseguenze disastrose.
Impegno davvero faticoso quello del Presidente della
Repubblica perché la patria, segnata dall'uso che ne fece il fascismo,
non ha avuto fortuna nella stagione repubblicana, per
molti altri versi feconda. Un riflesso condizionato di massa ne ha
allentato per lungo tempo i vincoli identitari. Una generazione
di italiani l'aveva sentita pronunciare solo da Almirante nei comizi
a piazza del Popolo. A Ciampi va dunque il merito di essersi
battuto per far tornare sulla bocca degli italiani, depurata dalle
scorie del passato, una patria per troppo tempo sconosciuta.
Quella che molti anni prima di lui, quasi per sortilegio, aveva
scoperto Natalia Ginzburg: «La patria erano quelle strade e quelle
piazze, i nostri cari e la nostra infanzia, e tutta la gente che
passava». L'ha ricordato poco tempo fa Maurizio Viroli. Un
codice di convivenza, dunque, in cui ci si dovrebbe riconoscere
uniti, nelle gioie e negli affanni, in un destino comune. Come ce
l'hanno gli inglesi, che non a caso abbiamo invidiato a lungo.
Dato dunque atto a Ciampi di questa rielaborazione della nostra
storia, dobbiamo registrare con sdegno che il sentimento unitario
più alto mai registrato dalla nostra Repubblica coincide,
paradossalmente, con l'attentato istituzionale più serio condotto
all'unità del paese. A promuoverlo con determinazione è un
ministro della Repubblica che ha giurato nelle mani di Ciampi
fedeltà alla Costituzione. Confessiamo di non sapere come si
possa uscire da tale contraddizione. Sappiamo però che tra le
prerogative del capo dello Stato, la più alta resta la difesa dell'unità
nazionale. Questo, per il momento, ci basta.
UN PAESE
FRANTUMATO
Agazio Loiero
La politica italiana presenta
spesso aspetti contraddittori,
a volte tragici e a volte comici. In
certi particolari casi, contraddittori,
tragici e comici insieme. A tale
densa categoria appartiene il tempo
politico che oggi l’Italia vive.
Parliamoci chiaro. Il rischio che il
paese si balcanizzi è altissimo.
Bossi sta spingendo in questi giorni
per una riforma costituzionale che,
oltre alla devolution, di fatto contenga
anche il Parlamento della Padania.
Intende inserire nell'ordinamento della Repubblica assemblee
esterne in grado sostanzialmente di contestare al Parlamento
nazionale l'attuale criterio di distribuzione delle risorse nel
paese. Esattamente, se ci è permessa un'amarissima soddisfazione,
ciò che questo giornale ripete da tempo immemorabile.
L'antico rovello di Bossi, volto a etichettare il sud come territorio
di parassiti dediti a mungere, attraverso il trucco della perequazione,
ordito da Roma ladrona, le risorse prodotte dal Nord,
riprende forza con gli emendamenti presentati docilmente dal
senatore d'Onofrio l'altro ieri in Senato. Il capo della Lega neanche
viene sfiorato dall'idea che gli italiani siano allibiti di fronte a
ciò che sta avvenendo in queste settimane a Parma, città adagiata
nel cuore della Padania felix. Sa bene che gli italiani dimenticano
in fretta. C'è qualcuno che ricorda più quello che è capitato, solo
qualche anno fa, nell'ex-Jugoslavia? Nessuno. La memoria degli
italiani in genere dispone di compiacenti strategie d'archiviazione,
che respingono ogni fastidioso accidente che ostacola il quieto
vivere, gli agi conquistati. Ma è appunto tale indifferenza a
rivelare il punto in cui tragico e comico si fondono, facendo
esplodere contraddizioni stridenti. Vediamone qualcuna. Nel
centrodestra, un personaggio colto, di non comune onestà come
Domenico Fisichella, si è, nei giorni scorsi, appellato allo schieramento
politico avversario nel tentativo di fermare Bossi e il suo
disegno di rottura dell'ordinamento unitario del nostro paese.
Un gesto disperato, ove si consideri che, a frantumare l'Italia è la
sua parte politica, più precisamente il governo di cui il suo
partito è componente, almeno sul piano formale, non secondaria.
Fini, leader di Alleanza nazionale, ricopre, come è noto,
nell'attuale esecutivo, la carica di vicepremier. Oh, intendiamoci.
Non penso affatto che Fini e i suoi vogliano frantumare il paese.
Temo però che, per come si sono assestati gli equilibri politici
nella Casa delle libertà, non dispongano affatto degli strumenti
per opporsi alle follie di Bossi e di Tremonti.
Cosa capita invece nel centrosinistra? Qui, mentre il capo della
Lega cerca di portare a compimento il suo progetto secessionista,
che meriterebbe qualcosa di più incisivo di una mobilitazione
dei girotondi, il centrosinistra appare immerso nelle beghe prodotte
dalla lista unitaria. La quale, ideata oltre sei mesi fa per
offrire ai propri elettori un'immagine di compattezza della coalizione,
ha raggiunto picchi di disunità mai sfiorati in passato. Un
congegno di autolesionismo così perfetto da apparire inventato
dagli avversari.
Vediamo cosa capita adesso sul versante dei poteri istituzionali
neutri. Scriviamo queste cose con il consueto rispetto, ma con
rabbia crescente. Questa Presidenza della Repubblica è stata contrassegnata
dal ritorno alla patria, ai suoi simboli, ai suoi vessilli.
Sicuramente, la scelta più felice compiuta da Ciampi in questi
anni. Un lavoro di scavo nelle coscienze, lento e difficile, perché
l'amore per il proprio suolo, essendo il prodotto di una storia,
non s'inventa dalla sera alla mattina e anche perché, usato in
forma esasperata, quell'amore può generare conseguenze disastrose.
Impegno davvero faticoso quello del Presidente della
Repubblica perché la patria, segnata dall'uso che ne fece il fascismo,
non ha avuto fortuna nella stagione repubblicana, per
molti altri versi feconda. Un riflesso condizionato di massa ne ha
allentato per lungo tempo i vincoli identitari. Una generazione
di italiani l'aveva sentita pronunciare solo da Almirante nei comizi
a piazza del Popolo. A Ciampi va dunque il merito di essersi
battuto per far tornare sulla bocca degli italiani, depurata dalle
scorie del passato, una patria per troppo tempo sconosciuta.
Quella che molti anni prima di lui, quasi per sortilegio, aveva
scoperto Natalia Ginzburg: «La patria erano quelle strade e quelle
piazze, i nostri cari e la nostra infanzia, e tutta la gente che
passava». L'ha ricordato poco tempo fa Maurizio Viroli. Un
codice di convivenza, dunque, in cui ci si dovrebbe riconoscere
uniti, nelle gioie e negli affanni, in un destino comune. Come ce
l'hanno gli inglesi, che non a caso abbiamo invidiato a lungo.
Dato dunque atto a Ciampi di questa rielaborazione della nostra
storia, dobbiamo registrare con sdegno che il sentimento unitario
più alto mai registrato dalla nostra Repubblica coincide,
paradossalmente, con l'attentato istituzionale più serio condotto
all'unità del paese. A promuoverlo con determinazione è un
ministro della Repubblica che ha giurato nelle mani di Ciampi
fedeltà alla Costituzione. Confessiamo di non sapere come si
possa uscire da tale contraddizione. Sappiamo però che tra le
prerogative del capo dello Stato, la più alta resta la difesa dell'unità
nazionale. Questo, per il momento, ci basta.
La politica italiana presenta
spesso aspetti contraddittori,
a volte tragici e a volte comici. In
certi particolari casi, contraddittori,
tragici e comici insieme. A tale
densa categoria appartiene il tempo
politico che oggi l’Italia vive.
Parliamoci chiaro. Il rischio che il
paese si balcanizzi è altissimo.
Bossi sta spingendo in questi giorni
per una riforma costituzionale che,
oltre alla devolution, di fatto contenga
anche il Parlamento della Padania.
Intende inserire nell'ordinamento della Repubblica assemblee
esterne in grado sostanzialmente di contestare al Parlamento
nazionale l'attuale criterio di distribuzione delle risorse nel
paese. Esattamente, se ci è permessa un'amarissima soddisfazione,
ciò che questo giornale ripete da tempo immemorabile.
L'antico rovello di Bossi, volto a etichettare il sud come territorio
di parassiti dediti a mungere, attraverso il trucco della perequazione,
ordito da Roma ladrona, le risorse prodotte dal Nord,
riprende forza con gli emendamenti presentati docilmente dal
senatore d'Onofrio l'altro ieri in Senato. Il capo della Lega neanche
viene sfiorato dall'idea che gli italiani siano allibiti di fronte a
ciò che sta avvenendo in queste settimane a Parma, città adagiata
nel cuore della Padania felix. Sa bene che gli italiani dimenticano
in fretta. C'è qualcuno che ricorda più quello che è capitato, solo
qualche anno fa, nell'ex-Jugoslavia? Nessuno. La memoria degli
italiani in genere dispone di compiacenti strategie d'archiviazione,
che respingono ogni fastidioso accidente che ostacola il quieto
vivere, gli agi conquistati. Ma è appunto tale indifferenza a
rivelare il punto in cui tragico e comico si fondono, facendo
esplodere contraddizioni stridenti. Vediamone qualcuna. Nel
centrodestra, un personaggio colto, di non comune onestà come
Domenico Fisichella, si è, nei giorni scorsi, appellato allo schieramento
politico avversario nel tentativo di fermare Bossi e il suo
disegno di rottura dell'ordinamento unitario del nostro paese.
Un gesto disperato, ove si consideri che, a frantumare l'Italia è la
sua parte politica, più precisamente il governo di cui il suo
partito è componente, almeno sul piano formale, non secondaria.
Fini, leader di Alleanza nazionale, ricopre, come è noto,
nell'attuale esecutivo, la carica di vicepremier. Oh, intendiamoci.
Non penso affatto che Fini e i suoi vogliano frantumare il paese.
Temo però che, per come si sono assestati gli equilibri politici
nella Casa delle libertà, non dispongano affatto degli strumenti
per opporsi alle follie di Bossi e di Tremonti.
Cosa capita invece nel centrosinistra? Qui, mentre il capo della
Lega cerca di portare a compimento il suo progetto secessionista,
che meriterebbe qualcosa di più incisivo di una mobilitazione
dei girotondi, il centrosinistra appare immerso nelle beghe prodotte
dalla lista unitaria. La quale, ideata oltre sei mesi fa per
offrire ai propri elettori un'immagine di compattezza della coalizione,
ha raggiunto picchi di disunità mai sfiorati in passato. Un
congegno di autolesionismo così perfetto da apparire inventato
dagli avversari.
Vediamo cosa capita adesso sul versante dei poteri istituzionali
neutri. Scriviamo queste cose con il consueto rispetto, ma con
rabbia crescente. Questa Presidenza della Repubblica è stata contrassegnata
dal ritorno alla patria, ai suoi simboli, ai suoi vessilli.
Sicuramente, la scelta più felice compiuta da Ciampi in questi
anni. Un lavoro di scavo nelle coscienze, lento e difficile, perché
l'amore per il proprio suolo, essendo il prodotto di una storia,
non s'inventa dalla sera alla mattina e anche perché, usato in
forma esasperata, quell'amore può generare conseguenze disastrose.
Impegno davvero faticoso quello del Presidente della
Repubblica perché la patria, segnata dall'uso che ne fece il fascismo,
non ha avuto fortuna nella stagione repubblicana, per
molti altri versi feconda. Un riflesso condizionato di massa ne ha
allentato per lungo tempo i vincoli identitari. Una generazione
di italiani l'aveva sentita pronunciare solo da Almirante nei comizi
a piazza del Popolo. A Ciampi va dunque il merito di essersi
battuto per far tornare sulla bocca degli italiani, depurata dalle
scorie del passato, una patria per troppo tempo sconosciuta.
Quella che molti anni prima di lui, quasi per sortilegio, aveva
scoperto Natalia Ginzburg: «La patria erano quelle strade e quelle
piazze, i nostri cari e la nostra infanzia, e tutta la gente che
passava». L'ha ricordato poco tempo fa Maurizio Viroli. Un
codice di convivenza, dunque, in cui ci si dovrebbe riconoscere
uniti, nelle gioie e negli affanni, in un destino comune. Come ce
l'hanno gli inglesi, che non a caso abbiamo invidiato a lungo.
Dato dunque atto a Ciampi di questa rielaborazione della nostra
storia, dobbiamo registrare con sdegno che il sentimento unitario
più alto mai registrato dalla nostra Repubblica coincide,
paradossalmente, con l'attentato istituzionale più serio condotto
all'unità del paese. A promuoverlo con determinazione è un
ministro della Repubblica che ha giurato nelle mani di Ciampi
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possa uscire da tale contraddizione. Sappiamo però che tra le
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