Il "moderato" Kerry
Un post sul blog di Alessio ("
Povera Alex") a proposito delle sfortune di Howard Dean e di supposte analogie col nostro girotondismo, mi ha convinto a leggere l'editoriale di ieri di Furio Colombo. Meno male, perché come sempre quando si parla di cose americane, il direttore de l'Unità sa dare una visione lucida e comprensibile di ciò che accade oltreoceano. Bellissima la parte in cui si sbarazza dei vari tentativi nostrani di inscatolare Kerry nel moderatismo-terzista-cerchiobottista citando Kerry. Estrapolo: «Ora che
ci siamo liberati del regime di Saddam
Hussein a Baghdad, dobbiamo
liberarci del regime di George
W. Bush a Washington».
IL MODERATO KERRY
di Furio Colombo
Una vulgata cara ai giornali
trasversali variamente ripartiti
di questa strana Italia
(quelli che amano i toni bassi e
la guerra subito) vuole che il candidato
democratico finora vincente
nelle elezioni “primarie” americane,
il senatore John Kerry, sia un
moderato tranquillo, a cui vanno
bene sia gli uni che gli altri, uno
che sussurra a quieti raggruppamenti
di cittadini, che non siano
mai né giacobini né girotondi, uno
che dice pacato soltanto le cose
equanimi che un Paese moderno
vuole condividere senza risse, senza
estremismi sessantottini. Perché
John Kerry è un professionista della
politica.
È vero, Kerry è un professionista
della politica. È stato eletto senatore
quattro volte e come è noto negli
Usa quel mandato dura sei anni.
I senatori sono cento, e di Kerry si
dice che non abbia mai avuto un
confronto meno che cortese con i
suoi avversari dello schieramento
repubblicano. Ora che si è candidato
alla presidenza degli Stati Uniti,
come si saranno accorti di lui gli
elettori americani, dall’Alaska alla
Florida, dal Maine alla California?
Gli esperti di campagne elettorali
americane attribuiscono l’attenzione
quasi immediata ottenuta dal
mite candidato Kerry su tanti gruppi
diversi di elettori delle
“primarie” a questa frase: «Ora che
ci siamo liberati del regime di Saddam
Hussein a Baghdad, dobbiamo
liberarci del regime di George
W. Bush a Washington. Noi abbiamo
pagato un prezzo troppo alto
in morti e in danaro e Bush ci sta
spingendo a proseguire a bordo
del suo treno deragliato».
E precisa: «L’Iraq è la dimostrazione
del disastro a cui ci porta l’unilateralismo
di Bush. Ma che si tratti
della guerriglia senza fine in quel
Paese, o dell’abbandono dell'Afghanistan,
o del rifiuto del protocollo
di Kyoto, o dello spingere il mondo
nel pericolo atomico della Corea
del Nord, o nell’offendere quasi
tutti i nostri amici e alleati, tutto
dimostra il fallimento di George
Bush e della visione ideologica che
Bush vuole imporre al resto del
mondo».
A questo punto, elettori e giornalisti
vogliono sapere subito che cosa
farà John Kerry se diventerà presidente
dopo Bush. Per un professionista
della politica la domanda è
insidiosa. Si vuol cercare di capire
se Kerry ha - e in che modo - il
senso della continuità istituzionale.
Ecco la risposta: «Se sarò presidente
degli Stati Uniti, nei
miei primi cento giorni dichiarerò
immediatamente finita -
perché disastrosa - la politica di
unilateralismo della presidenza
Bush, che ha fatto saltare le nostre
alleanze e i nostri migliori legami
nel mondo. Farò in modo che i
nostri alleati sappiano la verità e
non la propaganda sui fatti. Abolirò
immediatamente tutte le misure
di Bush sull’ambiente che sono
veri e propri attacchi dell’attuale
presidente all’aria e all’acqua di
questo Paese ma anche una offesa
al mondo.
Vi prometto che il prossimo ministro
della Giustizia americano
non si chiamerà John Ashcroft,
non assomiglierà a John Ashcroft,
non proseguirà neppure in minima
parte la politica di John
Ashcroft. Perché il nuovo ministro
della Giustizia si impegnerà a
restituire il diritto agli americani,
a rispettare la Costituzione, a proteggere
i diritti civili, e sarà suo
compito vigilare fermamente sulle
leggi della concorrenza, senza
favori agli amici degli amici.
Ministri e consiglieri di Bush sono
tutti ex lobbisti. Io proporrò una
legge che proibirà per cinque anni
a chi ha svolto attività di lobby a
favore di interessi e di aziende, di
assumere funzioni di governo di
qualsiasi tipo, anche con responsabilità
indiretta e di consulenza.
Gli accordi segreti tanto amati dal
governo di Bush diventeranno accordi
alla luce del sole, rendendo
pubblico ogni contatto o incontro
con chiunque a livello di governo
».
Credo che sia possibile dire - e
con tutto il rischio di importanti
elezioni primarie che devono ancora
venire - che Kerry vince, trascinandosi
dietro una folla sempre
più persuasa di elettori democratici
che fino a poco fa languivano
nell'incertezza e nella tentazione
di non votare, perché non è
trasversale, non è “soft”, non sta a
metà del guado, pensando chemeno
si muove e più gli indecisi lo
ammirano. A quanto pare i suoi
consiglieri ed esperti di quella
macchina strana e difficile che è il
sistema maggioritario bipolare, gli
stanno dicendo che gli indecisi si
sentono attratti da uno che è deciso,
non da un altro indeciso, e
apprezzano gesti netti, non il grigiore
poco visibile delle posizioni
«un po’ sì e un po’ no» e «non
esageriamo».
Dicono infatti i suoi avversari repubblicani,
e gli opinionisti di destra
dei giornali americani, che
John Kerry è un “estremista”. È di
George Bush la frase: «Kerry è persino
più a sinistra di Kennedy, e
questo non l’avrei mai creduto
possibile». Kerry fino ad ora non
sembra essersi lasciato intimidire
da queste accuse, benché gli uomini
di Bush abbiano tuttora «una
notevole potenza di fuoco» (la frase
è del commentatore democratico
Anthony Lewis).
C’è chi ricorda a Kerry che il candidato
Clinton, quando è andato
gradatamente imponendosi all’attenzione
dei votanti democratici
(nelle primarie) e poi di tutto il
Paese era molto più cauto del presuntomoderato
John Kerry. È vero.
Credo che Kerry risponderebbe
(estrapolo dai suoi discorsi): il
momento americano è insolito,
estremamente difficile, il Paese è
governato in modo arrischiato e
incompetente dunque è bene essere
chiari e netti nel contrapporre
una serie di idee che servano da
richiamo e da guida per gli elettori.
* * *
John Kerry occupa dunque con
energia lo spazio che il sistema
maggioritario bipolare offre a un
leader: definire in modo netto sia
la contrapposizione politica che
l’antagonismo personale. In questo
sistema elettorale chi vuole guidare
deve essere distinguibile al
primo sguardo, identificabile alla
prima frase. Disegna una immagine
di vita, non solo di politica. E
più quella immagine è diversa,
staccata, lontana, inconfondibile,
e più quel leader ha possibilità di
vincere.
Per esempio: George Bush ha annunciato
la pace che non c’è, vestito
da pilota da combattimento
che non è (ha il brevetto di pilota
ma è sempre stato alla larga dalla
guerra, in particolare dalla guerra
nel Vietnam) sulla tolda di una
nave da guerra. John Kerry parla
di inganno (la storia delle armi di
distruzione di massa), di guerra
sbagliata (la guerra al terrorismo
non ha niente a che fare con la
guerra a un Paese) e di «dopoguerra
fallimentare» (la pace non arriva,
la rivolta continua, ci sono
morti ogni giorno), dopo essere
stato eroe di guerra (nel giudizio
dell’esercito americano) ed eroe
di pace (così hanno pensato di lui
i giovani americani che si opponevano
alla guerra del Vietnam nei
primi anni Settanta).
È uno dei pochissimi americani
ad essere insignito di tre «Purple
Heart» (l’equivalente della nostra
medaglia d’oro al valor militare) e
di una medaglia d’argento. Nel
1971 il giovane eroe Kerry era stato
convocato dalla commissione
senatoriale che avrebbe dovuto
consigliare il presidente Nixon sulla
continuazione della guerra. Si
aspettavano che Kerry avrebbe
detto parole esemplari di incitamento.
La frase con cui ha aperto
la sua dichiarazione ha fatto il giro
del Paese in pochi minuti: «Come
potete avere il coraggio di chiedere
a un giovane di andare amorire
in Vietnam dopo che avete
sbagliato tutto?». La maggioranza
degli americani era ancora a favore
della guerra, Nixon era appena
stato rieletto, Robert Kennedy
non c’era più,Hubert Humphrey,
il leader democratico, aveva perduto
le elezioni perché non aveva
avuto il coraggio di seguire il percorso
tracciato da Kennedy. Non
c’era niente di opportunistico nel
gesto di quel giovane ufficiale carico
di medaglie che torna dal fronte
e dice ai senatori che si apprestano
a festeggiarlo: avete sbagliato.
Quando, molto più tardi (1984),
comincia la sua carriera di senatore,
Kerry lascia, anno dopo anno,
questa traccia: «The American for
Democratic Action», un gruppo
autorevole che da decenni si incarica
di monitorare, voto dopo voto,
la coerenza “democratico-liberale”
(noi diremmo: di sinistra) di
un deputato o senatore, ha sempre
attribuito a John Kerry 93 punti
su 100 (Ted Kennedy è fermo a
88, e solo Bob Kennedy ne ha avuti
100).
Come si vede il dato personale e la
riconoscibilità immediata contano
moltissimo nella campagna
elettorale di due schieramenti in
un Paese in cui non esistono talk
show prefabbricati, e in cui il presidente
degli Stati Uniti non potrà
esimersi dal faccia a faccia con
Kerry, se Kerry sarà il suo rivale.
Non esiste, infatti, un Bruno Vespa
americano che possa dare rifugio
nel suo studio a un presidente
che voglia evitare di misurarsi con
il suo avversario.
Sono cose che nelle normali democrazie
non si fanno e non si lasciano
fare.
* * *
I giornali italiani buoni per tutte
le stagioni si divertono con la
sconfitta di HowardDean, l’ex governatore
del Vermont che per
primo, tra i candidati democratici,
si è fatto notare per l’asprezza
delle sue posizioni e per la sua
risoluta opposizione alla guerra
in Iraq. Dicono, con curioso e penoso
provincialismo (se si pensa
alla vastità del paesaggio di cui
stiamo parlando) che con lui si è
rotto il girotondismo americano.
Per farlo, trascurano di leggere
giornali e opinionisti americani
che attribuiscono a Dean - anche
lui professionista della politica -
di avere per primo dato uno scossone
alla indecisione e confusione
degli elettori americani, uniti dalla
strage dell’11 settembre, ma
sempre più incerti sulle conseguenze
e sul prezzo delle decisioni
di Bush.
Kerry aveva detto sì alla guerra in
Iraq accettando la inedita manovra
di Bush: invece di chiedere al
Senato un no o un sì sulla guerra
gli ha domandato di spogliarsi dei
poteri di pace e di guerra e di
attribuirli temporaneamente al
presidente, dato lo stato di emergenza
creato da il terrorismo. È
stato un atto di fiducia che vecchi
senatori come Kennedy e Byrd
avevano appassionatamente sconsigliato
perché era un gesto contrario
alle raccomandazioni di
quei «Federalist Papers» dei padri
fondatori che ritenevano che tali
poteri dovessero restare sempre
nelle mani del Senato. Ma proprio
perché Bush ha ottenuto il
consenso in quelmodo - chiedendo
fiducia sulla parola, e poi mostrando
di avere usato le parole di
rapporti che sono risultati falsi -
non potrebbe riuscire contro Kerry
il gioco del “voltagabbana” che
va di moda qui in provincia (dove
coloro che lo fanno accusano
di farlo coloro che non lo fanno,
approfittando del blocco delle informazioni).
Kerry appare credibile
quando dice: «Mi sono fidato
del Presidente, giudicate voi il risultato
». Appare credibile quando
porta, a testimonianza della
sua capacità di affondare Bush, la
sua vita. Evidentemente dà fiducia
agli americani il modo netto e
senza esitazioni con cui dice subito
che abolirà tutte le leggi di Bush
e promette a un'America spaventata,
divisa e delusa di ricominciare
da capo.
Stiamo parlando dell'inizio di una
campagna elettorale e non del suo
risultato. Soltanto Berlusconi (ci
assicura il dottor Scapagnini, suo
medico) ha facoltà “previsive”.
Lui forse sa già come andrà a finire
e per questo è nervoso. Noi ci
accontentiamo di indicare il buon
modo in cui è cominciata questa
campagna elettorale americana.
Come dimostrano i soldati italiani
di Nassiriya bloccati in Iraq sotto
comando inglese, che risponde
al comando americano, è una
campagna elettorale che ci riguarda
da vicino.