Intellettuali e declino culturale
«Oggi non ci sono più, fra gli scrittori,
dibattito culturale e politico e conflitto
di poetiche, né, fra i critici e i teorici
della letteratura, dialogo e polemica
fra i vari metodi (non ci sono più,
nemmeno, metodi identificabili:
trionfano l’eclettismo e, come è stato
denunciato da tempo, la “crisi della
critica”)». Il "vuoto intellettuale dei
nostri termpi", denunciato su l'Unità da Romano
Luperini il 18 scorso, ha suscitato molte reazioni.
Tra tutte ho salvato quella - straordinaria - di Beppe Sebaste.
Sentite qua: «È l’ideologia del successo ad avere
promosso Berlusconi, non il contrario. Il
successo è ciò che si constata, che non si
giudica. Che presuppone anzi l’eclissi della
facoltà (kantiana e non solo) di giudizio, di
merito e di qualità».
Ma ce n'è per tutti nella riflessione di Sebaste:
«Ci siamo più volte
chiesti se davvero la sinistra ami il suo popolo,
se davvero la sinistra (i Ds) vogliano
opporsi a questo governo, e non soltanto
fargli una concorrenza stizzita e invidiosa». Ho evidenziato nel testo la parte che mi piace di più.
Storie di opposizione e di presenza nel mondo
Per concatenare la resistenza di intellettuali e scrittori contro il declino culturale
di Beppe Sebaste
Due sono i dibattiti che si stanno
svolgendo sull’Unità. Uno dove ci
si chiede se e come gli scrittori italiani
sappiano raccontare la realtà o ilmondo.
L’altro si chiede se è vero oppure no che
gli intellettuali di oggi siano miserabili o
assenti rispetto a quando c’erano Pasolini e
Calvino. È sempre meglio dell’assenza di
dibattito (un anno fa lamentavo la cultura
del monologo degli intellettuali e dei giornali
italiani, ognuno contento del proprio orticello);
peccato però che entrambi i dibattiti
siano malposti, essendo false le premesse
maggiori. Mi riferisco rispettivamente agli
articoli di Mauro Covacich sull’Espresso (15
gennaio) e di Romano Luperini sull’Unità
(17 febbraio).
L’articolo di Covacich era simpatico e
ben scritto. Se il riferimento alla rivista Micromega,
come esempio di lucidità politica
cui pervengono i discorsi degli amici scrittori
in pizzeria, ma ahimè non i loro romanzi,
poteva far sorridere (o rabbrividire), ho provato
un serio disagio di fronte alla presupposizione
di una realtà di cui le parole dovrebbero
farsi carico. A parte che è un’idea
estranea alla letteratura, provo disagio ogni
volta che le parole sono pensate come mezzo
o strumento. E non dimentico che nella
realtà di oggi esiste una dittatura mediatico-
pubblicitaria (non solo in Italia) che si
basa proprio su questo,
l’uso finalizzato
e perverso delle parole
e della loro performatività
(il dire
che è fare). Detto
questo, e a parte il
sussulto di ideologia
o di senso di colpa
che confonde le
parole e le cose, le
forme del dire coi
soggetti delle storie,
alla fine il discorso
di Covacich appare
un monumento al
provincialismo, il
che significa sempre:
vivere dimodelli
importati (come
lo stile geometrile
delle villette italiane),
non saper raccontare
(non osare
farlo) la propria storia.
Che invece è
proprio ciò che fanno
gli autori migliori,
come il pluricitato
Chuck Palhaniuk,
che a me ha
raccontato viceversa
il piacere di abitare in provincia (non si
schioda da Portland, Oregon, dove gli scrittori
pare proliferino) e di scrivere innanzitutto
su se stesso, non sulla «frantumazione
dell’american dream» o «l’implosione della
società americana», come dicono i critici.
Del resto le sorti del mondo, nonché le
definizioni della realtà, non dipendono dagli
Stati-Nazione, ma da corporazionimultinazionali
che rendono il mondo piuttosto
simile dappertutto - con buona pace di chi
disdegna la parola «post-moderno», che
vuol dire esattamente questo: una globalizzazione
estetizzante, tolomaica e senza Storia.
Ma la domanda è: perché è così facile,
anzi irresistibile, identificarsi nei personaggi
e nelle vicende narrate da Palahniuk, che
quanto più appaiono pazzesche tanto più
vanno al cuore della nostre vite iperreali?
Perché non c’è ideologia. Perché c’è intensità.
Perché sono presenti: ci sono, non ci
fanno. Non c’è un’idea della realtà, ma una
libertà che è tutt’uno con una sincerità, più
simile ai beat anni ’50 che alla letteratura
engagée. I suoi personaggi sono reporter,
studenti fuori corso, agenti immobiliari,
«cococo» di vario tipo, emarginati e disoccupati
dell’anima, che per trovare calore
umano vanno a gruppi di autocoscienza di
ogni genere, anche quelli di chi ha il cancro
al cervello. Inoltre è il tono che conta, non il
soggetto. Se diamo più importanza al soggetto,
al referente, piuttosto che alla forma
di ciò che scriviamo, non usciremo mai
dall’impasse (tutta mentale), e la realtà sarà
per noi un fantasma da invocare, non luogo
di consapevolezza, non un’esperienza da
scrivere e da leggere. Siamo capaci di riconoscere
quello che oggi, nella letteratura, è
ancora esperienza?
E verrei così (scusate la fretta) all’intervento
di Luperini. Esso è scritto con quel
vezzo un po’ francese di chi critica questo e
quello, e lo schifo di tutto quanto ci sta
intorno, senza specificare da dove parla, come
se il fatto di enunciarlo (in deroga alla
teoria degli insiemi) mettesse il locutore al
riparo sia del mondo che dello schifo del
mondo. L’articolo di Luperini mette in risalto
solo il negativo, senza alcun scrupolo
(ecologico? morale? da archivista?) verso
ciò che eventualmente è stato detto o scritto
prima di lui, gli scampoli o i tentativi di
dire e costruire qualcosa di abitabile, a sinistra
della politica come della letteratura. Per
dirla tutta: ma in questi anni, diciamo da
quando esce la nuova Unità, che cosa ha
fatto o detto Luperini? È al corrente di quanto
detto o fatto da altri? Il suo articolo avvolge
in un unico sudario tutte le scritture
dagli anni ’70 a oggi, mitizzando un’epoca
che personalmente rimpiango per tutt’altri
motivi (per la controcultura vivibile di allora,
l’accoglienza diffusa, la poesia, le droghe
irriducibili amodelli di comportamento ossequioso
e sottomesso, e soprattutto un senso
di appartenenza): per tutte quelle cose
che dal ’77 in poi sono state fatte fuori o
suicidate. Non solo con l’eroina o la violenza
armata, ma soprattutto colla coazione al
successo. È l’ideologia del successo ad avere
promosso Berlusconi, non il contrario. Il
successo è ciò che si constata, che non si
giudica. Che presuppone anzi l’eclissi della
facoltà (kantiana e non solo) di giudizio, di
merito e di qualità. Ovvio che al convegno
«Ricercare» Luperini ascolti testi che parlano
di cazzi e vomito: lo sforzo cognitivo ed
emotivo che i nostri tempi richiedono non
è superiore a quello digestivo di un rutto.
Ma non vorrei polemizzare col suo articolo.
Trovo ingiusto oggi attribuire ai singoli la
responsabilità dell’immenso spazio bianco
intorno alle loro parole. Ma occorre esserne
coscienti. Mi spiego.
C’è da anni questa ormai insopportabile
«giornalistizzazione» degli intellettuali,
degli scrittori, degli artisti, che fa di molti
delle macchiette. La manipolazione mediatica
delle loro parole, il marketing, la retoricizzazione
della loro funzione autoriale - il
fatto che il soggetto dell’enunciazione diventi
più importante dei suoi enunciati -
hanno fatto il deserto anche nelle oasi più
promettenti della cultura, della creatività e
della ricerca. E della politica.
Di tutto, i
media fanno una posa, intrattenimento,
consumo. Per esempio: un’esclamazione di
Nanni Moretti in piazza due anni fa fu
considerata punto di partenza di una nuova
opposizione. In realtà era connessa a
quanto già prima intellettuali e scrittori italiani
stavano facendo, esponendosi in prima
persona contro il «regime» e il declino
della democrazia in Italia (tra di essi il poeta
Mario Luzi e il regista Bernardo Bertolucci,
non il «solito» Tabucchi o il sottoscritto).
Vi fu la manifestazione promossa dall’Università
di Firenze, eccetera. Si diede
risalto al fatto che Fassino per i Ds invitasse
Moretti a fare politica. Avrebbe dovuto offendersi:
non lo stava già facendo da anni
coi suoi film? (Senza considerare che gran
parte dei modi di dire della sinistra viene
da lui). I Ds invitarono dunque intellettuali
e artisti a un seminario a Trastevere (un
analogo ampio appello a un’assise dell’intelligenza
democratica, lanciato su queste pagine
dal filosofo Fulvio Papi, restò inascoltato).
Come un sasso gettato in un lago,
una volta ricompattati gli ultimi cerchi d’acqua
tutto continuò come prima: gli intellettuali
a girare in tondo, i politici ad andar
dritti col loro linguaggio ingessato, imbalsamato,
estraniato (quando non in collisione)
dal sentire della società civile, dei loro
elettori. Al punto che ci siamo più volte
chiesti se davvero la sinistra ami il suo popolo,
se davvero la sinistra (i Ds) vogliano
opporsi a questo governo, e non soltanto
fargli una concorrenza stizzita e invidiosa.
Il grande evento del 2002, linguistico e politico,
fu l’eloquenza semplice e sobria che a
San Giovanni vibrò nelle parole di Nanni
Moretti, all’unisono coi cuori e le menti
dei partecipanti, in piazza o in tv. Dire le
cose come stanno, ristabilire la giusta relazione
tra le parole e le cose, con quella vena
di passione e di rigoremorale che renderebbe
la sinistra vincente quand’anche non di
governo. Come un No alla guerra, per
esempio. Senza tatticismi. Come il Non siamo
in vendita che
l’Unità fece uscire
in marzo, il libro
dei dissidenti (prima
che anche questa
parola diventasse
ostico concetto
in mano al direttore
di Micromega).
Un altro esempio:
un anno dopo, alla
cerimonia del premio
Campiello, il
poeta Edoardo Sanguineti
parla di regime
e del dovere dell’antifascismo
di
fronte al Presidente
del Senato (un filosofo!),
che ignora e
poi irride l’antifascismo.
Bene. Ma ecco
che la nostra società
mediatica, anche
di sinistra, invece di
prolungare il gesto
di Sanguineti, che
non nasce dal nulla
ma da una serie di
gesti precedenti, lo
isola, ne fa un caso,
una posa, e in questo
monumento lo annulla, azzerando ogni
memoria collettiva e ogni concatenazione
con altri atti di resistenza e di opposizione,
culturale e politica. Capito?
Ecco, devo all’articolo di Luperini
l’avermi fatto pensare tutto questo. E di
formulare qui e ora una proposta: che quanti
di noi scrivono articoli e interventi tra la
politica e la cultura, abbiano la generosità
di recuperare e costruire una memoria, di
concatenare i propri con gli altrui enunciati.
È anche questo, credo, l’unità. E solo in
questo senso, in effetti, non basta dire no:
occorre costruire una sorta di archivio della
coscienza, se posso esprimermi così. Prima
che anche queste parole (archivio, coscienza)
vengano messe definitivamente al bando
o in disuso, vuoi per imbarazzo, vuoi
perché non ci sarà più un referente: nessuna
memoria, né tantomeno anima.