Chi ha paura degli intelligenti?
La migliore risposta all'editoriale di Galli Della Loggia sul
Corriere del 6 marzo è un straordinario articolo di Ariel Dorfman comparso su l'Unità del 5 marzo.
Chi ha paura degli intelligenti?
Ariel Dorfman
Adesso che sappiamo che sarà
John Kerry a sfidare George
W. Bush nelle elezioni di novembre,
vorrei analizzare un'unica parola,
un termine che sorprendentemente
indica quello che con ogni
probabilità sarà l'ostacolo principale
che Kerry dovrà affrontare per
diventare il prossimo presidente degli
Stati Uniti.
Non è “terrore”, anche se Bush cercherà
di continuare a seminare la
paura tra gli elettori, sperando di
convincerli che il suo rivale, nonostante
il suo eroico servizio militare,
non è in grado di proteggere il
paese contro chi vuole distruggerlo.
Non si tratta neanche della
parola “liberale”, che Bush
ha già usato diverse volte
contro Kerry come un anatema,
cercando di dipingerlo come una
persona che aumenterà
le tasse
per poi destinare
i fondi pubblici
a progetti a favore
dei membri
più bisognosi
della società.
Non è neanche la parola “nord” -
anche se non è male ricordare che
da quando un altro senatore del
Massachussets con le sue stesse iniziali,
JFK, venne eletto presidente
nel 1964, gli unici democratici a
vincere la presidenza (Johnson,
Carter e Clinton) vengono tutti dal
sud degli Stati Uniti, e parlano con
un accento simile a quello usato,
con il suo fascino languido, da Vivian
Leigh (anche se lei era inglese)
in Via col vento.
Senza voler sminuire l'importanza
di queste parole - terrore, liberale e
nord - che faranno comunque sentire
la loro presenza nei prossimi
mesi, io sto pensando a un'altra parola,
che può essere ancora più decisiva.
È la parola “intelligente”.
È stata questa, infatti, la prima parola
che mi è venuta in mente quando
ho avuto l'opportunità di conoscere
John Kerry sei anni fa a Davos,
durante un pranzo veloce al
Forum economico mondiale. In
quell'occasione di lui mi colpì proprio
l'acutezza delle sue analisi, il
suo evitare di dare risposte facili, la
complessità con cui rispondeva a
un mondo altrettanto complesso,
la maniera in cui si riferiva a libri,
romanzi e saggi filosofici che aveva
letto, per fare dei collegamenti culturali
molto pertinenti. In una parola:
intelligente, molto intelligente.
Forse troppo?
Dopo averlo salutato - è un uomo
dal grande calore umano, anche se
questo calore raramente riesce a
passare attraverso lo schermo televisivo
- decisi di sottoporre il mio
dubbio a una sua consulente, il cui
nome purtroppo adesso non ricordo.
Era il 1998, e anche se Clinton
era all'apice della sua fama, si sapeva
già che Kerry nutriva aspirazioni
per succedergli alla presidenza. Ne
approfittai per fare una domanda
impertinente: Is Kerry too intelligent
to be the President of the United
States?, John Kerry non sarà
troppo intelligente per essere presidente
degli Stati Uniti?
La consulente del senatore ammise
che in effetti questo poteva essere
un problema. Mi disse: “Speriamo
che il popolo degli Stati Uniti capisca
che la Casa Bianca ha bisogno
proprio di un'intelligenza come
quella di John Kerry”. Il fatto che la
consulente non considerasse un insulto
la mia diffidenza - in fin dei
conti stavo insinuando che il suo
popolo preferiva un governante imbecille
a uno intelligente - è una
prova del fatto che il tradizionale
anti-intellettualismo della grande
maggioranza degli americani e la
diffidenza verso le personalità pubbliche
che dimostrano un interesse
eccessivo per i libri e le idee sono
ormai considerati il fenomeno più
naturale del mondo.
Quando avevo dieci anni, toccai
per la prima volta con mano questa
diffidenza americana verso i membri
dell'élite colta. In quel periodo
vivevo a New York - i miei genitori
mi avevano iscritto alla Dalton
School, bastione del progressismo
statunitense, dove nessuno dubitava
che il candidato democratico, il
senatore Adlai Stevenson, uno degli
uomini più lucidi e raffinati degli
Stati Uniti, avrebbe sconfitto Eisenhower,
un generale che si vantava
di preferire il golf alla lettura. In
una simulazione elettorale fatta nella
mia classe, Stevenson batté “Ike”
27 a 1, una cifra che mi rese ancora
più perplesso quando dopo pochi
giorni gli americani, nelle vere elezioni
del 1952, scelsero con una
schiacciante maggioranza Eisenhower,
scartando il suo avversario
perché troppo cerebrale e lontano
dalle preoccupazioni quotidiane
dell'americano medio. Quando
chiesi a mio padre com'era possibile
questa scelta di ignoranza e oscurantismo,
luimi spiegò che si trattava
di un fenomeno passeggero, un
malefico frutto del maccartismo
che era riuscito a dipingere gli intellettuali
come traditori della patria.
Ma quanto accadde in quelle elezioni
del 1952 non fu un fenomeno
passeggero. Undici anni più tardi,
Richard Hofstadter pubblicò Anti-
Intellectualism in American Life,
un'opera in cui analizzava le radici
profonde di questa diffidenza statunitense
verso chi “usa più parole
del necessario per spiegare cose
molto semplici”, secondo la sprezzante
definizione degli intellettuali
data dallo stesso Eisenhower. Hoftstadter,
che vinse il premio Pulitzer
con il suo saggio, faceva notare che
queste tendenze antiintellettuali si
dovevano a delle caratteristiche del
suo popolo che erano addirittura
precedenti all'indipendenza: la diffidenza
verso la modernizzazione secolare,
la preferenza per le soluzioni
pratiche e commerciali dei problemi
e soprattutto la forte influenza
dell'evangelismo protestante nella
vita quotidiana statunitense. Chi
legge oggi questo libro vedrà che il
suo autore in un certo senso anticipa
e prevede l'elezione di Ronald
Reagan e di George W. Bush, la
nascita del movimento neoconservatore
e la forza del fondamentalismo
cristiano oggi a Washington.
L'unica cosa che Hofstader non ha
potuto indovinare è fino a che punto
questo atteggiamento statunitense
sarebbe stato esacerbato negli anni
successivi dal predominio della
televisione e dall'incapacità del piccolo
schermo di ospitare dbattiti
difficili, prolungati, autentici. E si
spaventerebbe ancora di più se vedesse
come il denaro ha finito per
affondare il processo democratico.
Negli Stati Uniti oggi non parlano i
cittadini, ma i dollari. Dietro
l'espressione Money talks (sono i
soldi a parlare) si nasconde il disprezzo
del concetto che sta dietro
a talk: l'idea di un intelletto sofisticato,
il rifiuto del bisogno di convincere
qualcuno con una argomentazione
e non con una valanga di
annunci pubblicitari (come quella
che George W. Bush sta per riversare
sugli americani grazie ai suoi quasi
infiniti fondi per la campagna).
Probabilmente niente di tutto questo
sarà fondamentale nelle prossime
elezioni americane. Probabilmente
conterà di più il fatto che
Bush abbia trascinato il suo paese
in un'invasione catastrofica dell'Iraq, abbia gravato di debiti le generazioni
future per favorire i suoi
sostenitori più opulenti, o stia guidando
un'economia in cui milioni
di persone sono senza lavoro e molti
temono di perderlo. Probabilmente
il suo attacco alla scienza,
all'ecologia e alle libertà civili scatenerà
una reazione
da parte di
un popolo che
si è stancato di
questa eterna
manipolazione
e che non vuole
che i soldi parlino
al suo posto.
Molto tempo fa a Boston, a pochi
isolati dalla casa in cui oggi John
Kerry ha la sua residenza, viveva un
uomo di nome Ralph Waldo Emerson.
Era l'intellettuale statunitense
più importante del XIX secolo; in
un'occasione si lamentò che il suo
paese fosse conosciuto soprattutto
per la sua superficialità, e metteva
in guardia: “i grandi uomini e i
grandi paesi non sono buffoni o
spacconi.
Sono stati sempre capaci di percepire
il terrore insito nella vita e di
agire per essere capaci di guardarlo
in faccia a testa alta”.
Speriamo che i concittadini di
Emerson possano conoscere quello
che questo pensatore scrisse con
tanta eloquenza più di centocinquant'anni
fa; speriamo che non abbiano
paura di scegliere oggi come
presidente un uomo che sa che il
modo migliore per sconfiggere il
terrore è usare un'intelligenza di
cui non dovremmo mai vergognarci.