Sezione: carceri
Botte a un detenuto, condannati sei agenti di Opera (3143 bytes)
«Il sottoscritto» (detenuto sudamericano in carcere per traffico di droga) «dichiara di avere accidentalmente golpito la testa vicino il occhio sinistrao scivolando in cella escludendo terze persone». Irresistibile. Da film di Alberto Sordi. Eppure chi ha firmato questo foglio di carta non si è divertito affatto il 24 agosto 1999 nel carcere di Opera. Prima l' hanno malmenato perché si era rifiutato di sottoporsi a una perquisizione nudo e con flessioni, poi hanno attestato il falso nei propri rapporti di servizio, quindi hanno indotto il detenuto a sottoscrivere di proprio pugno questa surreale dichiarazione nella quale spiegasse di essersi fatto male da solo cadendo in cella. Ora però un Tribunale, la prima sezione penale presieduta dal giudice Maria Rosa Busacca, a cinque anni di distanza ha presentato il conto ai 6 agenti penitenziari (tutti ancora in servizio, tranne uno dimessosi dall' amministrazione) ritenuti in primo grado colpevoli di «lesioni», «falso in atto pubblico, «minacce», e «violenza privata», e assolti invece dall' ipotesi di «perquisizione arbitraria»: condanne da 1 anno a 1 anno e 10 mesi, con la sospensione condizionale della pena subordinata però al risarcimento del danno al detenuto, che nel frattempo, scontata parte della pena, è tornato in Colombia. Nella requisitoria del processo a fine febbraio, il pm Luca Poniz ha rilevato come la vicenda presenti toni oscuri non tanto per la violenza delle percosse (per fortuna in questo caso non andate oltre qualche schiaffo e calcio), quanto soprattutto per il successivo tentativo di «aggiustare» la versione da fornire all'inchiesta interna e a quella della magistratura. Il processo ha restituito abbastanza nitidamente cosa accadde quel 24 agosto 1999: non un pestaggio scientifico, ma la reazione fuori le righe ad un rifiuto del detenuto, rifiuto vissuto dagli agenti come la furberia di un prigioniero che alzava troppo la cresta. Il peggio comincia dopo, quando gli agenti verbalizzano che è stato il detenuto malconcio «a incominciare a gridare e a sbattere la testa contro il muro»; quando lo avvertono di stare attento a quel che dirà, perché «tra noi non c' è una montagna a separarci, ci incontreremo, la tua galera è lunga»; e quando gli fanno firmare la dichiarazione in cui dice di essersi fatto male da solo. Il colombiano tace di fronte a un primo medico che commette l' ingenuità di ascoltarlo alla presenza di uno dei presunti agenti picchiatori, poi però si confida con una volontaria. Al dibattimento, il direttore del carcere ha riproposto ai giudici la positiva valutazione che dei suoi uomini aveva già dato a caldo nel maggio 2000 quando era venuta a galla l' inchiesta:MIO MARITO IN CARCERE E' STATO PICCHIATO DA ALTRI DETENUTI, NESSUNO GLI HA PRESTATO SOCCORSO, HANNO CERCATO DI NASCONDERE LA COSA, GLI AGENTI LO HANNO MINACCIATO PIU' VOLTE E TORTURATO PSICOLOGICAMENTE. IL CARCERE E' GIA' UNA DURA PROVA, QUESTE DINAMICHE TOLGONO ANCOR DI PIù LA DIGNITA'AL DETENUTO, A MIO MARITO IN QUESTO CASO...NON SO COSA DAREI PER PORTARMELO VIA DA LI' IL PIU' PRESTO POSSIBILE, NON SONO TRANQUILLA A SAPERLO LI' DENTRO. RAFFAELLA
Ci credo.
Solidarietà a voi