Corriere peggio che terzista
Il Corriere è un quotidiano terzista? Già di per sé il termine non è un complimernto (sarebbe come dire "cerchiobottista", aolo un po' addolcito), ma il fatto è che il Corriere sta sempre più spesso scadendo nella pura disinformazione. Ecco due esempi lampanti, entrambi comparsi il 9 aprile, entrambi in prima pagina.
Nel fondo di Dario Vico si attribuisce all'intera classe politica italiana un peccato che è al 100% di Berlusconi (anche perché è l'unico che dispone del potere necessario a commetterlo): l'abuso politico della televisione. Il premier usa la TV pubblica come cosa sua, rifiuta il confronto (che della buona TV politica è una condizione essenziale), supportato da una serie di maggiordomi alla Vespa-Socci, pronti a soiddisfare ogni suo capriccio. Ma Vico mette in guradia tutti: "senza organizzare un adeguato contraddittorio i talk show dedicati all' informazione politica non hanno mercato". Magari potremmo riparlarne quando Fassino avrà rifiutato il confronto con Berlusconi? Grazie.
L'altro esempio di disinformazione è firmato da Magdi Allan, quando dipinge la nota (e seguita) TV araba
Al Jazira a tinte fosche, attribuendole il ruolo di "megafono delle forze più integraliste e fanatiche", addirittura di artefice della trasformazione dell'Iraq in "potente valvola di sfogo collegiale". L'idea che Al Jazira sia l'unica voce che ci racconti drammi, emozioni e - perché no - rabbie del mondo "altro" rispetto all'Impero dei dollari (che impedisce di mostrare i funerali dei militari USA uccisi) non viene preso in considerazione. Né lo sfiora l'ipotesi che terrorismo e reazioni del popolo Iraqeno possano essere ambiti distinti.
In questo Allan ricorda nei toni e nei contenuti
Giuliano Ferrara all'attacco de l'Unità lo scorso ottobre.
Per chi avesse voglia di toccare con mano lo scempio che si sta facendo del Corriere, ho salvato nel testo esteso di questo post i due avvilenti articoli.
Corriere della Sera del 9 aprile 2004 - articolo di fondo
BASTA MONOLOGHI IN TELEVISIONE
Salviamo i politici da loro stessi
di Dario Vico
L' opinione pubblica italiana non sembra amare i monologhi. Piuttosto pare dare ragione all' economista e premio Nobel Amartya Sen che nell' ultimo suo libro ama definire la democrazia come il governo che si realizza attraverso la discussione pubblica. Una riprova viene dai dati elaborati dall' Auditel sulla puntata di Porta a porta che ha visto come ospite e protagonista assoluto il presidente del Consiglio. Lo share medio fatto registrare è stato di poco superiore al 17% e nell' ora e mezzo in cui la trasmissione condotta da Bruno Vespa è andata in sovrapposizione con il nuovo reality show di Italia 1, La Fattoria, il confronto ha avuto un esito imbarazzante. Per lunghi e lunghi minuti i teleutenti italiani che si sono sintonizzati su Daria Bignardi e la sua squadra di concorrenti sono stati quasi addirittura il doppio (31% a 16% di share) di quelli che hanno preferito seguire Silvio Berlusconi. Se dunque fino a qualche tempo fa eravamo abituati, anche giustamente, a considerare le regole della par condicio come un marchingegno burocratico e dal sapore dirigistico, oggi gli addetti ai lavori scoprono che senza organizzare un adeguato contraddittorio i talk show dedicati all' informazione politica non hanno mercato. Toccherà agli studiosi della comunicazione capire cosa sta succedendo e che tipo di maturazione stia conoscendo il tele-elettorato. Di sicuro è bene che i politici ne prendano atto al più presto. E' nel loro stesso interesse. Se il pubblico mostra di apprezzare il confronto delle idee, il ping pong, l' argomentazione stringente, la capacità di mettere alle corde l' avversario, non resta che accontentarlo e cambiare velocemente strategia di comunicazione. Ha poco costrutto dunque far diventare il tema del «contraddittorio sì, contraddittorio no» l' ennesimo e sterile terreno della battaglia tra gli schieramenti, come pure è accaduto con il recente voto della commissione parlamentare di Vigilanza sulla Rai. Lo sciopero del telecomando rappresenterebbe una sconfitta per l' intera politica italiana senza sostanziali differenze tra centrodestra e centrosinistra. Si tratta, invece, di adottare il buon senso e definire regole e format che prevedano in televisione il confronto più aperto e che usino il contraddittorio persino come elemento di marketing per aumentare l' audience. Del resto nelle altre democrazie mature esistono tanti esempi cui poter attingere. Le campagne elettorali americane dall' ormai lontano 1960, John Kennedy contro Richard Nixon, hanno esaltato il fascino del faccia a faccia e chi tra i candidati ha cercato di sfuggire alla regola del confronto alla fin fine ha pagato un duro prezzo ed è stato costretto a fare dietrofront. Il modello americano è stato via via adottato anche nel Vecchio Continente, seppur con qualche eccezione legata ad una particolare contingenza. Tranne il caso Chirac-Le Pen, in Francia sono ormai trent' anni che va in onda il contraddittorio tra gli aspiranti inquilini dell' Eliseo e dal 2002 anche la Germania si è incamminata sulla stessa strada, definendo regole stringenti ma anche spettacolari (non più di novanta secondi per ogni risposta) per accrescere il valore aggiunto della competizione tra candidati. La cultura della Rai, ma anche dei suoi concorrenti privati, è tale da permetterci di importare la formula e magari di innovarla. Chissà che in questo modo non si finisca per rubare spettatori ai reality show.
Immagini e parole, l' odio in onda su Al Jazira
MEDIA E TERRORE. L' ODIO
di Magdi Allam
Il colpo più duro all' America in Iraq lo sta dando la televisione araba Al Jazira. Una bomba mediatica all' ennesima potenza che arriva proprio nell' anniversario della caduta di Bagdad. Le immagini dei corpi sanguinanti nell' ospedale di Falluja, dei morti riversi lungo le strade della stessa città roccaforte della guerriglia sunnita, dei tre ostaggi civili giapponesi con i coltellacci alla gola nell' atto dello sgozzamento hanno portato all' apice l' odio e la voglia di vendetta nei confronti degli americani e dei loro alleati. Al Jazira, da lungo tempo megafono delle forze più integraliste e fanatiche, sembra essere riuscita nell' ardua impresa di attribuire una dimensione popolare all' attività terroristica dei gruppi estremisti sunniti e sciiti. Così come sembra essere riuscita a fungere da catalizzatore delle annose e infinite frustrazioni di tanti arabi e musulmani, trasformando l' Iraq in una potente valvola di sfogo collegiale. Una sorta di fronte di prima linea ideale sul piano religioso, politico e militare dove poter ingaggiare la Guerra santa contro l' America. Per rendersi conto dell' impatto traumatico del messaggio di Al Jazira era sufficiente ascoltare la voce del direttore sanitario dell' ospedale di Falluja, Taher al-Issawi: «Aiutateci! Questa è una guerra di sterminio! Il mio non è più un ospedale, ma un macello colmo di cadaveri dissanguati e di corpi dilaniati!». Subito dopo la conduttrice da studio, con l' emozione che tradiva la sua profonda partecipazione al tragico evento, ha chiesto a un leader religioso sunnita in collegamento da Bagdad: «Fino a quando continuerete a limitarvi a protestare pacificamente contro le forze di occupazione americane? Non pensate di ricorrere ad altri mezzi?». Più che una domanda sembrava un' incitazione all' uso della forza. Le successive testimonianze sul bombardamento americano della moschea di Falluja, trasformata in fortino dei guerriglieri sunniti, sono state un uragano di maledizioni e minacce contro l' America. Perfino una ministra del governo provvisorio iracheno, ospite in una trasmissione di Al Jazira dove si commentava il caos delle ultime ore, attorniata da interlocutori che denunciavano apertamente il «genocidio degli iracheni», si è trovata costretta a prendere le distanze dagli americani. In questo clima diventa sempre più difficile sostenere o anche soltanto mostrarsi neutrali nei confronti degli americani. Bisogna prendere atto che almeno questa guerra, quella dei media, l' America l' ha persa. Uno smacco non di poco conto se si tiene presente che nella vittoria contro il regime di Saddam Hussein un ruolo cruciale l' ebbe la poderosa macchina bellica dell' informazione pilotata e della disinformazione mirata. Una lezione che sia Al Qaeda sia la sedicente Resistenza irachena hanno imparato più che bene. Tanto è vero che nei loro proclami strategici sottolineano la centralità del ruolo dei media nella guerra in corso. Convinti che gli americani e i loro alleati saranno costretti a ritirarsi dall' Iraq quando non riusciranno più a contenere la protesta e la pressione delle rispettive opinioni pubbliche. Per l' ennesima volta la strategia americana denuncia il grosso limite politico e culturale. La sua incapacità di risultare credibile, di raccogliere il consenso pieno della maggioranza degli iracheni. Che pure sono grati all' America per averli affrancati dalla sanguinaria tirannia di Saddam. C' è stato un momento in cui, all' indomani della serie ininterrotta dei brutali attentati contro le sedi dell' Onu, delle ambasciate e delle moschee sciite, questa maggioranza ha reagito. Ha denunciato apertamente i terroristi che massacrano in maniera indiscriminata. Ora invece sembra in balia del caos e della paura. In qualche modo la minoranza violenta, i superstiti del passato regime e la scheggia impazzita sciita di Moqtada al Sadr, stanno riuscendo nell' intento di imporre il proprio potere dispotico. Sono contro l' America e l' Occidente, ma anche contro l' Onu e la prospettiva di un Iraq libero e democratico. Qualora dovessero trionfare, a perdere non sarebbero solo gli americani. Ma principalmente gli stessi iracheni e l' insieme del mondo libero.