Pare che tornare a casa da Nassirya sia riformista. Meno male
"Lascio stare la tesi che con il ritiro vince il terrorismo. Il terrorismo lo
sta rafforzando l'impresa americana". Anche "l'unico vero d'alemiano" fa una clamorosa marcia indietro su l'Unità dell'11 aprile 2004. In una arzigogloata lettera a Furio Colombo (cui una decina di giorni fa aveva provato a dare
lezioni di buon giornalismo), anche il "direttore fallito" Peppino Caldarola - dopo aver abbondantemente
assimilato popolo dell'Iraq e terrorismo - scopre che lasciare l'Iraq è "riformista". Meglio tardi che mai.
Perché ora dico soldati a casa
Peppino Caldarola
Caro Colombo,
c’era, in un film di cassetta
di molti anni fa, un colonnello
Buttiglione che non si arrendeva
di fronte all’evidenza. Non
sono un seguace del colonnello
Buttiglione. Ha fatto scalpore
che abbia dichiarato di aver cambiato
idea sul ritiro dei nostri
soldati dall’Iraq. Pochi si sono
cimentati sul fatto che la situazione
è drammaticamente cambiata.
Altro che bizzarria personale. Tenere ferma una linea è una
prerogativa dei “rivoluzionari” e degli “statisti”, categoriemolto
numerose nella sinistra. Quelli normali comeme guardano
agli eventi e cercano una via d'uscita.
Il quadro iracheno è del tutto mutato. Non c'è un dopoguerra, ma c'è
una guerra di terra. La contrapposizione non è tra eserciti e bande
armate, ma fra eserciti e popolazioni. Il prezzo di sangue è intollerabile.
Quattrocentocinquantamorti a Falluja.Membri del governo provvisorio
iracheno protestano e si dimettono per il susseguirsi delle
stragi. Bush continua amentire e il governo italiano invita al coraggio
ma lascia i soldati allo sbando.
È iniziata la terza guerra irachena. Il parlamento non l'ha autorizzata.
Fino a qualche settimana fa, è qui il merito del lodo Zapatero fatto
proprio dalla sinistra e dal centro-sinistra, il quadro prevedeva mesi
difficili in attesa del cambio del 30 giugno. Bisognava resistere in
attesa che la pressione internazionale convincesse gli Stati Uniti ad
una nuova risoluzione Onu che sostituisse i contingenti impegnati
con forze non considerate ostili dalle popolazioni irachene e dai loro
capi. Ma da una settimana questo tran tran guerreggiato è finito. La
guerra è ripresa su larga scala e assistiamo al paradosso che i governi
che hanno mandato soldati laggiù sperano in un accordo con gli
ayatollah e con gli iraniani per dar vita a un nuovo, o a più nuovi,
Iraq fondamentalisti. Non solo non si capisce più il senso di una
guerra che avevamo contrastato, ma si avverte la tragedia di una
guerra che mette in piede nuovi regimi arabi ancora di più ostili
all'Occidente. Il danno che Bush e i suoi alleati hanno fatto all'immagine
dell'Occidente è senza precedenti. Ci vorranno decenni di pace e
di collaborazione per invertire la tendenza.
Andar via subito, mi si dice, non è riformista. Dico la mia. Il riformista
non fa la guerra, accetta l'uso della forza ma non fa la guerra alle
popolazioni civili. Il riformista, se non fa parte di una specie di Lions
della sinistra, cerca una via d'uscita a situazioni in cui la destra ha
cacciato il paese. Le domande sono due: come è possibile arrivare al
cambio di strategia in Iraq? E come è possibile dare all'Iraq una
evoluzione accettata dagli iracheni e tutelata internazionalmente?
Non si può sfuggire all'unica risposta possibile. Bisogna spingere,
anche con gesti politici forti, gli Stati Uniti a lasciare il comando delle
operazioni. Nessuno sogna l'umiliazione dell'America, ma gli amici
dell'America non possono accettare che quel grande paese si immerga
in un Vietnam ancora più disastroso. Dire “ritiro subito”, ovvero
dire “un fatto nuovo oppure ritiro”, corrisponde alla necessità di
creare la situazione di forza che può spingere gli Stati Uniti a un
cambio di strategia. È il tema politico del ritiro - la sua attuazione può
essere non precipitosa e ordinata - che può produrre un fatto nuovo.
Lascio stare la tesi che con il ritiro vince il terrorismo. Il terrorismo lo
sta rafforzando l'impresa americana. Da Ted Kennedy all'accusatore
di Condoleza Rice tutti ci dicono che l'America di Bush ha scelto un
nemico dimenticandone un altro, Bin Laden.
Su questo terreno è possibile trovare un vasto consenso. Può scoppiare
la “pace preventiva” a sinistra e rivelarsi insensato lo scontro di
questi anni dentro un'area politica che in nessuna sua componente
ha approvato l'intervento. Può mettersi a fuoco il dramma di un
paese, il nostro, in cui un governo non sa quello che fa, vive alla
giornata e non dà indicazioni ai nostri comandi affittandoli al comando
anglo-americano. Dal momento che i nostri soldati non sono
vigilantes (non vi colpisce questa guerra privata che si svolge perdurante
la guerra privata di mister Bush), il fatto che Berlusconi, Frattini
e Martino non sappiano giorno per giorno che cosa faranno carabinieri
e soldati è agghiacciante.
Credo che le correnti pacifiste “senza se e senza ma” debbano seguire
con rispetto l'evoluzione del dibattito degli interlocutori riformisti.
Ormai la data del 30 giugno è diventata convenzionale, essendo tutti
convinti che il fatto nuovo si debba produrre subito, cioè ieri. Al
tempo stesso i riformisti devono essere meno attenti alla paura di
pronunciare la frase scandalosa “ho cambiato idea”. Se la situazione
cambia, cambia la linea. C'è una casistica, anche recente, nella sinistra
che dimostra che questo è l'unico atteggiamento intelligente quando
il mondo non è quello che ci raccontiamo. Ci sono cose di principio
che sono in discussione. Non possiamo accettare una guerra che non
abbiamo voluto. Non possiamo accettare che gli eserciti occidentali,
compreso il nostro, sparino sulle popolazioni civili. Non possiamo
aspettare che la bacchetta magica, o un fucile magico, sblocchino la
situazione. Gesti politici per far sbloccare la situazione. La coerenza
personale, o riformista che dir si voglia, sta nel trovare un collegamento
fra questi principi e quelli applicati per giudicare la situazione
attuale e quella precedente. È probabile che il giorno che tutti auspichiamo,
con l'intervento multinazionale guidato dall'Onu, rivelerà
altre spaccature nel centro sinistra. Ora però affrontiamo questo
passaggio. Gli stati maggiori del centro sinistra chiedono una novità
prima del 30 giugno e la novità può stare nel dare ai nostri soldati
l'ordine di non sparare sulla folla e nel pretendere una riunione
europea che ponga condizioni all'amministrazione Usa. Sullo sfondo
di questi obiettivi da raggiungere rapidamente c'è l'ipotesi, che io
suggerisco, di chiedere il ritiro immediato delle nostre truppe. Non
c'è trattativa da fare, con questo inesistente governo e con quello
americano, che possa portare a buoni frutti se ti presenti a mani
nude. Non possiamo caricarci sulle spalle gli errori gravi dell'amministrazione
americana. Possiamo dirle di tirarsi fuori da quel pantano o
di far da sola. La solidarietà occidentale si ferma di fronte alle prepotenze
di una classe dirigente occidentale. Stare fermi significa morire
a poco a poco in una situazione che ogni giorno porta il suo tributo
di sangue e rischia di far perdere l'onore alle forze armate italiane, che
si sono caricate d'onore in tante parti del mondo.