Si faccia qualcosa di diverso
Zapatero preme concretamente,
con un'iniziativa precisa, gridata e drammatica, perché
si faccia qualcosa di diverso, non ci si limiti ad
aspettare passivamente che "qualcosa succeda" davvero. Da non perdere la bellissima analisi di Ginzberg (Unità del 19/4) sulla scelta del nuovo premier spagnolo.
UN’ALTRA STRADA
Siegmund Ginzberg
Annunciando a sorpresa, il
giorno dopo l'inaugurazione
del suo governo, di aver
già dato al suo ministro della
Difesa José Bono "l'ordine di fare
quanto è necessario perché le
truppe spagnole in Iraq tornino
a casa nel più breve tempo e nella
massima sicurezza possibile",
il premier José Luìs Rodriguez
Zapatero non si limita a confermare
quanto aveva già detto
chiaro e tondo all'indomani della
vittoria elettorale socialista. Introduce
un elemento nuovo.
Si assume una responsabilità e, al tempo stesso, la
trasforma in iniziativa politica. Non si limita a fare
quello che aveva promesso ai suoi elettori. Mette il
dito sull'urgenza che il "voltar pagina" in Iraq non
resti nel limbo dei tira e molla diplomatici, delle
buone intenzioni ambigue. Preme concretamente,
con un'iniziativa precisa, gridata e drammatica, perché
si faccia qualcosa di diverso, non ci si limiti ad
aspettare passivamente che "qualcosa succeda" davvero.
Un mese fa, Zapatero aveva detto che la Spagna
avrebbe ritirato i suoi 1300 soldati, mandati in Irak
dal suo predecessore José Maria Aznar "entro il 30
giugno", a meno di "fatti nuovi", e cioè che il dopoguerra
passasse di mano alle Nazioni unite. Nel
frattempo è successo l'ira di dio a confermare che
così come è andata avanti l'occupazione americana
non ci sono soluzioni in vista, anzi ci si dirige
inesorabilmente verso una catastrofe, per gli iracheni,
per gli occupanti e, peggio ancora, per l'intera
situazione internazionale. Ieri ha fatto un passo in
più, argomentando: "In base alle informazioni di
cui disponiamo è improbabile che venga adottata
una risoluzione dell'Onu che corrisponda alle condizioni
che abbiamo messo per la nostra presenza
in Irak". Non dice che non ci può essere. Dice che
non gli risulta che si stia andando, con la rapidità
che sarebbe imposta dalle circostanze, in quella
direzione. Non dice: ce ne andiamo per darla vinta
a chi ci minaccia. Ha detto: non avremmo mai
dovuto andarci in quelle circostanze. Ora sostiene
che le circostanze non stanno cambiando come
avrebbero dovuto. Si dirà: ci sono molti modi per
operare perché cambino. Andarsene per molti non
è ilmigliore.Ma certo èmeglio che non fare assolutamente
nulla, attendere passivamente che "qualcun
altro" si decida. Zapatero mette i piedi nel
piatto, si espone all'accusa di "fuga", "diserzione".
Ma fa qualcosa che potrebbe creare condizioni nuove.
John Kerry, il candidato democratico alla Casa
bianca, lo aveva invitato a "ripensarci", non ritirare
le truppe. Anche lui ritiene che nella trappola di
questa guerra il suo paese si sia avventurato malamente,
che così non se ne esce. Non ha soluzioni
bell'e pronte, tranne che se ne può uscire solo la
comunità internazionale tutti insieme, tornando a
combattere il nemico vero, il terrorismo di Al Qaeda.
La soluzione, ha detto ieri in tv, è cambiare
presidente alla Casa Bianca: "Potrebbe proprio volerci
un nuovo presidente, una ventata di aria fresca
per ristabilire la credibilità nel resto del mondo".
Ma il problema è che il pasticcio in Iraq non
aspetterà le elezioni americane di novembre. Qualcosa
fa fatto subito, prima che sia troppo tardi.
Ognuno può fare solo quello che può. Zapatero
aveva una carta di pressione da giocare, l'ha usata.
Qualunque sia il momento in cui ritireranno le
truppe (a giugno o prima), comunque decidano di
mantenere o meno una presenza spagnola (la prossima
settimana di questo ne discuteranno aWashington
il ministro degli Esteri Miguel Angel Moratinos
e la consigliere per la sicurezza nazionale di
Bush, Condoleezza Rice; gli spagnoli, si dice, potrebbero
restare con compiti più specifici, tipo addestrare
la polizia irachena), è un modo per dire
che bisogna ripartire da zero. La Spagna era stata
tra i cosponsor della guerra. L'Italia no. Ma poi ha
inviato, per mostrare zelo, il doppio di truppe che
gli spagnoli. Siamo sicuri che dire finalmente che se
le cose non cambiano ce ne andiamo anche noi
sarebbe un gesto di viltà, e non invece di responsabilità,
il modo più concreto di spingere, lavorare ad
una soluzione diversa, rispetto a quella intenibile di
adesso?
Sia pure a denti stretti, a Washington sembrano
essersi rassegnati a cercare finalmente una via
d'uscita con l'Onu. Non è detto che a questo punto
basti e possa funzionare. Ma soprattutto non è
ancora del tutto chiaro che a Washington e al Palazzo
di vetro a New York abbiano in mente la stessa
cosa: resta il sospetto che gli uni vogliano sostanzialmente
una "legittimazione" dell'Onu a un'occupazione
che continua ad essere quella Usa anche se
cambia nome, gli altri un vero trasferimento di
poteri agli iracheni e alla comunità internazionale.
Zapatero appare pessimista che ci si stia davvero
avviando verso uno scioglimento del nodo. Di fatto
potrebbe aver fatto per scioglierlo più di chi si
limita a stare a guardare.
La sua iniziativa potrebbe finire col rivelarsi la
spinta più efficace al voltare pagina di cui si discute.
Le proposte del rappresentante di Kofi Annan per
l'Iraq, l'algerino Lakhdar Brahimi si fondano grosso
modo su tre pilastri: un governo nominato davvero
dall'Onu anziché dagli americani; elezioni come
chiede lo sciita ayatollah Sistani (ma i tempi
stringono, per poterle fare a gennaio bisognerebbe
che le decidessero adesso, non a giugno); una nuova
risoluzione Onu che sancisca l'accordo, in modo
particolare dei critici della guerra Francia e Russia;
il consenso della Lega araba, e una partecipazione
islamica al peace-keeping (non dei turchi, che complicherebbero
le cose in Kurdistan, non dei vicini
interessati, tipo sauditi, siriani o iraniani, che sarebbe
improponibile; più realisticamente di egiziani e
marocchini, forse algerini, oltre che pakistani e indiani).
Non c'è tempo per altri giochi. Potrebbe
non funzionare anche così, ma se mancasse anche
uno dei pilastri, nemmeno si comincia.
Le alternative sarebbero andarsene (attenzione:
gli americani per primi, altro che spagnoli o italiani),
una repressione molto più brutale e sanguinosa,
con tutte le conseguenze (anche questa non ha
mai funzionato), o una spartizione dell'Iraq (che
non conviene a nessuno: basti pensare che il sud
sciita avrebbe l'80 per cento del petrolio). Forse la
storia potrà dire che se si è tentata almeno una via
diversa, sarà stato grazie anche a Zapatero, non a
quelli che si erano infilati la testa sotto la sabbia per
non dover dire all'imperatore che era nudo.