«Il mio voto al centrosinistra. Non dico per chi» Roberto Cotroneo
ROMA Di vere interviste negli ultimi anni non ne ha date mai. Qualche battuta, qualche virgolettato un po’ rubato e poco più, e si sa che lui ha un rapporto difficilissimo con i giornali. Da più di un anno poi, il suo silenzio è assoluto. Ma Nanni Moretti è fatto così, già trovarlo al telefono è difficile, farlo parlare, ancora di più. Proprio per questa ragione la lunga intervista che state per leggere è un’assoluta eccezione. Eppure ce n’era bisogno. Chiamato in causa un po’ da tutti, icona della sinistra, regista impegnato e ironico verso il suo mondo. Basti pensare a film come Ecce Bombo, Bianca, Palombella rossa, Aprile. Ma soprattutto motore primo, animatore e protagonista della stagione dei girotondi. Una stagione che lui ha vissuto con grande passione e partecipazione, da cui però a un certo punto si è allontanato, tornando, come dice lui, a fare il suo mestiere. Abbiamo ripercorso con lui, gli ultimi due anni e mezzo.
Nanni Moretti, per chi voterai alle europee?
«Voterò per una lista del centrosinistra, però non voglio specificare quale».
Perché?
«Per due motivi. Il primo è che spesso, purtroppo, non c’è un clima molto solidale nel centrosinistra. E non mi va di contribuire a questo clima. E poi c’è un motivo più importante. Ho avuto la fortuna e l’onore di entrare in sintonia, negli anni scorsi, con tante elettrici ed elettori di sinistra e centrosinistra. Per tutti era molto importante l’unità della coalizione. Ci tengo anch’io, i movimenti dei girotondi guardavano più alla coalizione che ai singoli partiti, e preferisco continuare su questa strada».
Nanni Moretti leader dei girotondi e dei movimenti, oggi dice che c’è un modo per tenere unito il centrosinistra. Non distinguere tra lista unitaria e Occhetto e Di Pietro, Diliberto o Verdi. Forse non basta però. Da quel giorno di febbraio del 2002 in cui mettesti sotto accusa i leader della sinistra in piazza Navona molte cose sono cambiate.
«Tu fai un passo indietro di due anni. Io vorrei prima farlo di 34 anni. Le cose partono sempre da lontano. Nei miei ultimi anni di liceo ho fatto un po’ di politica a scuola. In un gruppo extraparlamentare moderato. La gente si mette a ridere quando uso questa espressione».
Beh, è un ossimoro.
«A Roma saremmo state duecento persone in quel gruppo (pubblicavamo una bella rivista, cosa rara in quel periodo). Uno dei dirigenti era Paolo Flores d’Arcais. Con lui ci siamo ritrovati trent’anni dopo. Bene, se torno a quegli anni mi accorgo che il modo di far politica di quasi tutti i gruppi era, per usare un’espressione che allora non si usava ma che rende bene l’idea, autoreferenziale».
Vi parlavate tra voi, e basta.
«Diciamo che non si riusciva (forse non eravamo interessati) a parlare agli studenti non politicizzati, e non riuscivamo a comunicare nemmeno con i giovani della Federazione giovanile comunista. Io ho vissuto la stagione successiva al ’68: la cristallizzazione del movimento in tanti piccoli gruppi, in cui l’ideologia, invece che uno strumento di conoscenza della realtà, era diventata un mezzo per nasconderla. I gruppi volevano superare il vecchio modo di far politica della sinistra tradizionale e invece riproponevano in piccolo quel modo di far politica. Una specie di involontaria parodia».
Una parodia della sinistra, di piccoli gruppi extraparlamentari di quegli anni. Tu sei stato un maestro nel raccontare quel mondo.
«Sai, c’è un sacco di gente che pensa che io sia stato un regista di film di “denuncia”, film che in realtà non ho mai realizzato. Il mio primo cortometraggio, del 1973, si intitolava “La sconfitta”. Ed era la presa in giro di un militante extra-parlamentare. Fin da allora ho preferito raccontare con ironia gli amici piuttosto che attaccare frontalmente i nemici politici. Ho sempre avuto un rapporto interno ed esterno con la sinistra, un rapporto di affetto e di cattiveria, di partecipazione e di ironia verso il mio ambiente politico, sociale e generazionale».
Quindi quel giorno a piazza Navona, nel febbraio del 2002, quando mettesti sotto accusa lo stato maggiore della sinistra, raccoglievi un filo che veniva da lontano.
«Sì, ma che mi avrebbe poi portato a un’esperienza diametralmente opposta».
Ma tu quel giorno ci avevi pensato di fare quella uscita. O fu casuale?
«No, che non ci avevo pensato. Ero andato a quella manifestazione da solo. Avevo lasciato la macchina al mio cinema, il Sacher, e poi avevo preso il tram numero 8. Sono arrivato in piazza Navona puntuale. Non c’era molta gente. Però per la prima volta c’erano dal palco molti interventi di persone che non erano politici di professione. C’era Sylos Labini, c’era Francesco Pardi, Giovanni Bachelet, Lidia Ravera... Loro criticavano le leggi sulla giustizia del centrodestra, ma criticavano anche in parte l’operato dei governi di centrosinistra. Non era il solito rito».
In che senso?
«Nel senso che c’era un elemento di novità. La voglia delle persone di mettersi in discussione, fuori dal rituale del solito comizio rassicurante e autocelebrativo. Alla fine arriva il momento degli interventi di Fassino e Rutelli».
E in te è scattato qualcosa.
«Non potevo credere che il rito sarebbe ricominciato identico, senza prendere in considerazione tutto quello che era stato detto prima. E allora mi sono un po’ innervosito. Tra me e il palco c’erano venti o trenta metri. Ho cominciato a camminare molto lentamente verso il palco. Ogni tanto facevo un paio di passi, poi mi fermavo. Ci ho messo moltissimo ad arrivare, la durata dei due interventi ufficiali. Stava finendo tutto. Nando Dalla Chiesa salutava e ringraziava i partecipanti. Quando una signora anziana accanto a me, che mi aveva visto arrivare, mi guarda e mi chiede: “Vuoi parlare?”. Io faccio un sorriso un po’ incerto. E allora lei e altre persone lì intorno, non io, chiedono di farmi parlare».
Quell’indecisione alla fine ha dato i suoi frutti.
«Sì, lì per lì non mi sono reso conto di quello che era successo. Dopo me ne sono andato via, facevo a piedi viale Trastevere e la gente mi fermava, qualcuno era stato alla manifestazione, altri avevano sentito il mio intervento alla radio. Capii che si era messo in moto qualcosa».
Tu dicesti: “non ho mai creduto al mito della base comunista ma certo è che l’elettore e l’elettrice della sinistra di oggi non meritano lo spettacolo penoso dei loro vertici”. E quello che tu definisci uno spettacolo penoso era seduto dietro di te. Tu sei un uomo schivo e riservato. Come hai fatto?
«Non avrei trovato il coraggio se non avessi percepito che il mio sentimento era lo stesso di tutte le persone che stavano in quella piazza. E non parlo di folla, parlo di individui: persone che si erano entusiasmate per interventi autocritici, persone di sinistra che dicevano: ci sono stati cinque anni di governi di centrosinistra, cerchiamo di non ripetere in futuro gli stessi errori. Anch’ io avvertivo quella voglia di affermare un’identità, di ripartire con energia. Nel febbraio 2002, nove mesi dopo la sconfitta elettorale, i politici di professione erano ancora storditi, mentre l’elettorato cominciava a svegliarsi, a voler ripartire».
I politici di professione. La politica che non riesce a capire i suoi elettori. È una vecchia storia.
«Vecchia e nuova. Prendi Bologna. Anche un bambino arriva a capire che con Cofferati a Bologna si può vincere. Dopo cinque anni di opposizione, che lì possono soltanto aver fatto bene a una sinistra abituata a decenni di potere, Cofferati mette assieme tutti i partiti, tutte le associazioni. E allora mi chiedo: c’è bisogno dei sondaggi per essere ottimisti a Bologna?».
Un tempo si sarebbe detto che parli con termini pre-politici e impolitici.
«È vero. Un altro esempio: maggio 2001. Sono in Vespa sul lungotevere. Incontro un dirigente dei Ds, anche lui in motorino. Gli chiedo: “Come andrà il ballottaggio dei sindaci?”. E lui: “Mah, speriamo di vincere almeno a Napoli”. E invece poi al ballottaggio abbiamo vinto a Napoli, a Torino e a Roma. Oddio, ci pensi: il nostro candidato era Veltroni e avevamo paura perfino di Tajani... Che paese».
Sconfittismo?
«No, ti prego, questa espressione di gergo non mi piace, non farmela usare. Oggi domina un’idea fredda della politica, fatta di sondaggi, di coperte. Hai presente la coperta, no? Quella storia della coperta troppo corta, che se la tiri da una parte, ti scopre dall’altra. O Mastella o Bertinotti. Come se l’elettorato fosse immodificabile, immobile sotto quella leggendaria coperta che va da una parte o dall’altra. E invece si possono convincere persone e conquistare voti con programmi, autorevolezza, personalità forti, valori. Guarda, con i valori non si perdono voti. Certo che lo so che non bastano per vincere, ma a sinistra non fanno certo perdere voti».
Torniamo a quelle settimane. Tu torni a casa a piedi. La gente ti ferma. Capisci che è successo qualcosa. E i leader della sinistra che fanno?
«Fassino mi cercò il giorno dopo. Mi disse che stava scrivendo una risposta che sarebbe uscita sull’“Unità”. Io poi scrissi un articolo per “Repubblica”, intitolato “Lo schiaffo di un elettore”.
E non vi siete incontrati e parlati?
«Lui mi invitò nella sede dei Ds. Lì abbiamo un po’ parlato, non molto».
E poi basta? Fammi capire. A te in questi ultimi anni non è mai capitato che so, di cenare con D’Alema o con Fassino, e parlare di politica con loro? Parlare della sinistra? Di quello che si vede fuori dai luoghi istituzionali della politica?
«No, mai».
Andiamo avanti.
«No, aspetta. Volevo insistere su un fatto. Io ho un modo di parlare un po’ orizzontale... ma poi tutto torna al suo posto. Sai perché ho cominciato parlandoti di 34 anni fa?».
Provo a indovinare. C’è un rapporto tra il movimentismo dei tuoi primi anni Settanta, e quello dei girotondi. Quello dei girotondi non era autoreferenziale, era assolutamente l’opposto.
«E non era programmato nulla. Annamaria Cocchioni, che lavora da sempre qui alla Sacher, era andata la sera prima della nostra manifestazione al Palazzo di Giustizia, a fare un “sopralluogo” con un’altra ragazza dei girotondi di Roma. Avevano calcolato che per fare almeno un anello di manifestanti che circondassero il Palazzo di Giustizia ci volevano novecento persone. E avevamo la preoccupazione di non farcela. Ne sono arrivate cinquemila».
E dire che tu non sei mai stato uno di quelli che amano le manifestazioni.
«Vero. Io negli anni Settanta spesso non mi ritrovavo negli slogan, a volte macabri. E invece quel giorno ero a mio agio, c’era allegria, gli slogan non erano truci, funzionava tutto. A cominciare dal clima della giornata. Mancavano ancora i giovani, che sarebbero arrivati dopo. Ma c’erano persone che non erano mai state a una manifestazione e altri, della mia età, che ci tornavano dopo tanti anni. Alla fine tutti erano fermi in piazza Cavour, nessuno se ne voleva andare. Allora mi hanno dato un megafono, della Sacher film, la mia società di produzione. Non funzionava».
Ma dai.
«Così mi hanno dato un altro megafono, della Fandango, una società di produzione più ricca. E quello funzionava. Non mi ero preparato nessun discorso, ma ho subito detto che il problema della giustizia non riguardava soltanto l’elettorato di centrosinistra, ma riguardava la democrazia, quindi tutti. Poi ho aggiunto: mi auguro che qui ci siano anche persone che hanno votato centrodestra, e si sono alzate un paio di mani».
Su cinquemila persone non era molto.
«Ma era comunque qualcosa, era l’inizio, poi ai successivi girotondi sono venute tante persone non politicizzate a sinistra. Su questo punto ho insistito spesso: parlare anche agli elettori di centrodestra, coinvolgerli nelle nostre iniziative sulla giustizia, il monopolio dell’informazione, la sanità e la scuola pubblica. Purtroppo in Italia, e questa è la vera novità negativa da dieci anni a questa parte, non c’è più un patrimonio comune, condiviso da centrodestra e centrosinistra».
Non ti sembra un po’ schematico?
«Su molte cose penso di non esserlo, ma su questo aspetto voglio essere schematico. Da quando Berlusconi è entrato in politica, i due elettorati non riescono più a comunicare. Prima un elettore democristiano dialogava con un elettore comunista: sentivano di avere un retroterra comune. Questa democrazia, nel bene e nel male, l’avevano costruita insieme partendo dalla Resistenza. Dal 1994 in Italia non esiste più un patrimonio democratico condiviso da progressisti e conservatori. E tutto questo ormai ce lo porteremo dietro per troppi anni».
Con tutta l’intolleranza che comporta?
«C’è un ritorno all’Italietta di ieri, però con l’accanimento, l’arroganza e la volgarità di oggi. Si è rotto qualcosa. Nel 2006 il centrosinistra, insieme a Rifondazione comunista, potrà anche vincere, ma sarebbe una vittoria non certo entusiasmante vincere in un paese spezzato in due, piegato anche psicologicamente e moralmente, devastato su un piano culturale, del costume».
Moretti, in una di queste interviste, Francesco De Gregori ha detto che prima ti sei impegnato nei girotondi e poi te la sei filata un po’ all’inglese.
«L’ultima iniziativa a cui ho partecipato è stata il tentativo di far presentare, alle elezioni europee, un’unica lista del centrosinistra. Un tentativo ingenuo: tutti volevano correre separatamente e avevano già preso le loro decisioni. L’elettorato chiedeva un centrosinistra unito. E non per far scomparire all’improvviso le differenze, ma perché quelle differenze venissero valorizzate. Ho paura che andare alle elezioni divisi e non solidali significhi esasperare le differenze, producendo due caricature . La caricatura di un centrosinistra “riformista” e “responsabile”, e la caricatura di una sinistra “radicale”».
Quindi non ti sei defilato all’inglese.
«Ero arrivato al punto in cui non era possibile rimanere sospeso a metà. Tra la politica e il mio lavoro, il cinema».
E hai scelto il cinema.
«Che è un lavoro che amo. Anche se la stagione politica è stata per me molto intensa. Uno dei motivi per cui tante persone mi hanno fatto sentire il loro sostegno, la loro solidarietà, il loro affetto è che avvertivano che io, nel migliore dei casi, da questa vicenda non avevo nulla da guadagnare (e forse non era per tutti così). E percepivano anche un’altra cosa».
Quale?
«Che nella mia vita, nel mio lavoro, nelle mie scelte ho sempre cercato di essere coerente ( certo, riuscirci è un’altra cosa, ma penso che almeno bisogna provarci). E l’ho fatto in una stagione in cui la frase più ricorrente, prepotente e stupida era: “La coerenza è la virtù degli imbecilli”. Io la coerenza non l’ho imparata dalla sinistra, ma da mio padre, che era liberale. Avrei voluto ereditare anche la sua tolleranza. Lui era molto tollerante, io molto meno. Oggi, con l’età e la stanchezza, forse lo sono un po’ di più».
E il centrodestra?
«È impressionante come in questo decennio il centrodestra non sia riuscito ad esprimere un ceto politico almeno decente. Mi ha stupito. Berlusconi dal 1994 è addirittura peggiorato. Per lui il senso dello Stato è un oggetto misterioso. E il conflitto di interessi e la legge antitrust, problemi inesistenti».
Sembra che al suo elettorato questo interessi assai poco.
«Sì, anche molte persone di sinistra pensano che sia banale ricordare che Berlusconi ha tre reti televisive. Ma venticinque anni delle sue televisioni sulle nostre teste, qualcosa hanno significato. C’è ormai un modo di ragionare in cui vedi che sono saltati dei nessi tra una premessa e un enunciato, sono saltate le associazioni, i passaggi logici. La televisione ti ovatta e ti rende familiari e quasi simpatici dei personaggi che nella vita reale non staresti nemmeno a sentire. Cinque anni di governo Prodi per Berlusconi sarebbero stati fatali. Avremmo vinto anche nel 2001. Prima della caduta del governo Prodi, Berlusconi era considerato perdente anche all’interno del centrodestra».
E poi è arrivata Rifondazione.
«Va beh, non parliamone proprio ora. Le elezioni, con le dovute proporzioni, andranno bene per tutte le liste di centrosinistra. E anche per Rifondazione comunista».
In futuro torneremo a vedere un Nanni Moretti movimentista, che torna a parlare con il megafono?
«Ora ho messo uno stop. Poi magari tutto ricomincerà in un altro modo».