Quella del 1982, era l'entusiasmo di un paese che si era lasciato alle spalle il piombo di un decennio e le contraddizioni di un periodo drammatico, e si era lasciato alle spalle anche il primo scandalo del calcio scommesse. Un’Italia opportunista e con il sorriso sulle labbra, il presidente Pertini e quel Bearzot taciturno che giocava a scopone. Il leader della squadra si chiamava Zoff, uno che non parlava quasi mai, uno di cui non si è mai saputo quanto guadagnasse.
Sarebbe durata poco. Di lì a qualche anno anche nel calcio sarebbe arrivato come un tornado il dottor Berlusconi. Arrivato a sconvolgere tutto, a moltiplicare gli ingaggi secondo logiche stellari, a comprare calciatori per non farli giocare, e soltanto per sottrarli ad altre squadre. Di lì a poco avremmo avuto il Milan di Gullit e Van Basten e la fine di un certo mondo del calcio. Lo diceva Gianni Rivera in una intervista di tre giorni fa: procuratori, avvocati, e sponsor. Questo è il calcio di oggi. Un calcio di gente che pensa al denaro, e i danè fan dannà, dicono a Milano.
Non siamo simpatici. Lo ha detto anche Gennaro Gattuso. Che per impegno e devozione simpatico dovrebbe esserlo. Ma lo dice perché percepisce qualcosa. E non capisce che dovrebbe pensare al suo presidente, calcistico e del Consiglio, e a quello che rappresenta in questa Europa. A questo modo di invadere tutto, anche il calcio. Quando Dino Zoff fu eliminato dagli europei del 1998, fu Berlusconi a chiedere le sue dimissioni. Poi fu Berlusconi ad applaudire a Trapattoni, che chiama confidenzialmente “Giuan”, e di cui dice: «Ho un debole per lui. Quando lo vedo mi sciolgo. Perché ricordo quella volta che Pelè dopo averlo incontrato voleva smettere di giocare a calcio: il brasiliano fu marcato da Gioan, poi andò ad allenarsi su un altro campo perché per 90 minuti non aveva visto palla...». E non è vero. Era a San Siro, amichevole, il 12 maggio 1963, Sandro Mazzola esordiva in maglia azzurra, il marcatore più forte si chiamava Giacinto Facchetti, e soprattutto Pelè giocò solo 25 minuti di partita, sostituito da Quarentinha, e non era per nulla disperato.
Italia di bugie, leggende false e antipatie. Che porta ad arbitri mal disposti, monitorata da televisioni danesi che forse tendono prevedibili trabocchetti (filma tutto che se il nostro lo picchia Totti prima o poi gli sputa...), dove un centravanti da otto miliardi l’anno, colpisce di testa in area dieci volte senza mai prendere lo specchio della porta, e poi si permette di dire che lui può guardarsi allo specchio e i giornalisti che a guardarlo giocare non credono ai loro occhi, proprio no. Questa nazionale arrogante e insensata, di talenti chiusi dentro inspiegabili contraddizioni, assomiglia terribilmente a una parte di questo paese. Che non ha il senso della misura in Europa, che si ritiene centrale quando non lo è, che ha un premier che fa le corna ai vertici, chiama tutti per nome, e passa da una abbraccio a Bush, a uno schema calcistico per il suo Ancelotti. Che ritiene di saper tutto. E che nel declino di un paese sempre più traballante, dice che lui è un grande statista, e può camminare a testa alta. Esattamente come il suo Gioan, come il suo Carraro, gente che in sette incontri ufficiali, con una squadra che sul mercato vale quanto tutto il pil dell’Africa centrale, ha vinto due partite, una con la potenza calcistica dell’Ecuador, e l’altra con i bulgari, il cui giocatore più forte è la seconda punta del Lecce, e ha solo 18 anni, e ha giocato pure poco. E tutto questo è una barzelletta che fa più ridere di quelle di Berlusconi. Allora è chiaro poi che tutti dicono: «Non siamo simpatici». Siamo sommersi da pubblicità di ogni genere, pagate miliardi, dove Totti rimanda in campo il pallone con un lancio dall’esterno dello stadio (un presagio?) e poi Totti travestito da gladiatore e Totti che beve lattine di non so che cosa. E poi c’è la pubblicità di Tim, ironia più grande di tutte, che riesce nel miracolo di far segnare finalmente Vieri, ma solo in un gioco per il telefonino.
In campo Totti c’è passato per soli 90 minuti, per il resto stava fuori dallo stadio, come nella pubblicità, e Vieri in campo non ha segnato. Ma ha imprecato molto, questo sì, come fosse inseguito da un’aura negativa che lo accompagnava di continuo. Poi ha sbottato, in una affollata conferenza stampa, usando l’espressione d'antan tanto cara a certa tradizione di questo paese: «Me ne frego», rivolto a tutti quelli che avevano qualcosa da dire sulle sue prodezze calcistiche. Le sue parole e la sua espressione del viso erano la migliore conferma a quanto si è ripetuto in questo europeo: non siamo simpatici, a nessuno.
E non eravamo neanche simpatici in Corea, nel 2002. Invece eravamo simpatici in Spagna, nel 1982, ed eravamo simpatici negli Usa, nel 1994, i mondiali di Roby Baggio. In quel 1994 in cui scese in campo, con la solita metafora calcistica, Silvio Berlusconi. E scese in campo con un partito politico che chiamò, con grande preveggenza, Forza Italia, e i suoi elettori, sostenitori, militanti, deputati, e senatori, sono diventati gli azzurri. Strategia di comunicazione su un prodotto vincente. Ora il prodotto vincente ha preso tutti i vizi di Berlusconi. Apparenza, contratti gonfiati, veline, sponsor e risultati inesistenti, polemiche e colpe scaricate sugli avversari. E mitologie tutte da dimostrare: come quella marcatura di 90 minuti di Trapattoni su Pelè, che non ci fu in un’Italia-Brasile che ricorda solo Berlusconi. E oramai è inutile prendersela con la Fifa, i biscotti scandinavi e gli arbitri scandalosi. Dopo Moreno, un cognome che ormai è diventato un insulto, è arrivato il russo Ivanov: che nega due rigori a noi, e concede un inesistente rigore ai bulgari, con i bulgari già eliminati dall’europeo. Il segnale più forte di non rispetto del nostro calcio. Ma non siamo simpatici. Meno simpatici dei bulgari. La Bulgaria, che fu uno dei paesi più ferreamente comunisti tra quelli del patto di Varsavia. Ma questo a Berlusconi non bisogna dirlo, perché sennò chissà cosa inventa...