Il Rebus
della Lista
Unitaria
Enrico Morando
È possibile che la crisi della leadership di Berlusconi e del primato della «sua» Forza Italia sia anche la crisi del bipolarismo? È certamente possibile, perché i problemi del Paese si vengono aggravando e la politica non sembra in grado di guidarlo nello sforzo che è necessario per affrontarli. Prima, nel 1998, c’è stato il cedimento del centro-sinistra: vinta la sfida dell’euro - tanto ardua da indurre lo stesso Prodi ad una seria incertezza nei primi mesi successivi alla vittoria del ‘96 - la coalizione Ulivo più Rifondazione comunista desistente ha ceduto sotto il peso della sua disomogeneità politica, quando l’obiettivo delle riforme per lo sviluppo poteva finalmente prendere il posto di quello del risanamento. Allentatasi la morsa del vincolo esterno, le forze riformiste del centro-sinistra non hanno saputo produrre né il cambiamento di se stesse (l’Ulivo come nuovo soggetto politico unitario), né il cambiamento del Paese (le riforme per competere nella stabilità economico-finanziaria e diffondere la giustizia sociale).
Il centro-destra si è candidato con successo alla guida del Paese esattamente perché da un lato ha saputo costruire una coalizione (la Casa delle libertà) che è apparsa più coesa non perché mettesse assieme forze meno disomogenee (la Lega e Alleanza Nazionale, che nel ‘94 erano addirittura partners di Forza Italia in due coalizioni diverse, una per il Nord e l’altra per il Centro-Sud), ma perché dominata da un partito egemone, dotato di un consenso vicino al 30% e capace di fornire all’intero centro-destra un leader indiscusso (sia pure in una logica «padronale»). Dall’altro lato, perché ha saputo dare a quella nuova (rispetto al ‘94 e al ‘96) coalizione politica un progetto: il sogno berlusconiano di un’Italia con meno Stato, meno sindacato, meno regole e meno tasse e perciò con più libertà, più ricchezza e addirittura più solidarietà verso i poveri (un milione di pensione a tutti).
Oggi, a distanza di soli tre anni, la crisi del progetto (crescita zero, quota del commercio mondiale in caduta libera, pressione fiscale alle stelle, deficit fuori controllo, famiglie che non arrivano alla fine del mese) e la crisi del soggetto politico (Forza Italia dal 30 al 20%) possono indurre molti a ritenere che «si stava meglio quando si stava peggio». Perché l’alternanza - a noi sconosciuta per cinquant’anni - sarà anche bella, ma bisogna che sia efficace. E se non ce la fanno né il centro-sinistra né il centro-destra, forse siamo proprio noi italiani a non essere «buoni» per l’alternanza: dal 1861, in fondo, solo i rivolgimenti traumatici hanno interrotto l’evoluzione per via centrista-trasformista.
Di qui, il rischio che la crisi del berlusconismo travolga quel gracile bipolarismo in cui siamo entrati non per scelta delle forze politiche e delle classi dirigenti, ma grazie al voto della maggioranza degli italiani nei referendum. Non mi preoccupano intanto i cosiddetti poteri forti - ma forti di che, se i grandi gruppi finanziari-industriali italiani sono tutti impegnati in attività protette da monopolio e tremano ad ogni sospiro della politica? - quanto la stanchezza e la crescente incertezza dei cittadini comuni. E, questo sì, di quelle imprese di media dimensione che la competizione globale la fanno davvero - non in barca, la domenica - e ricevono dalla politica solo calci negli stinchi. Come prova l’incredibile vicenda della legge per la tutela del risparmio: ci voleva un intervento immediato (Usa post Enron) e dopo un anno siamo ancora là a parlarne, ché adesso ci sono le ferie. Però la Cirami si fa in cinque giorni.
Se il centro-destra crolla sotto il peso del fallimento della sua politica economica e dell’incapacità di Forza Italia di mantenere quella funzione centrale che ha saputo darsi con l’ingresso nel Ppe e la leadership di Berlusconi, delle due l’una: o il centro-sinistra è in grado di ristrutturare se stesso e di ridarsi un progetto per l’Italia, o prenderà vigore un neo-centrismo senza la Dc che farà perdere al paese altre occasioni di crescita quali-quantitativa. Come si vede, sono già al lavoro: proporzionale, neo-centralismo illuminato (?), basta con le liberalizzazioni...
Qui interviene la proposta del nuovo soggetto riformista, capace di essere perno di un centro-sinistra che può essere tanto più ampio (verso sinistra e verso il centro) quanto più è organizzato attorno a una forza politica che sia essa stessa di «centro-sinistra» (esattamente come lo sono e si definiscono la Spd e il Labour) e sia dotata di un profilo politico-programmatico (il sistema ideologico-valoriale) e di una leadership individuale e collettiva tali da risultare garanti - agli occhi dei cittadini elettori) della credibilità di governo e della stabilità dell’intera coalizione. Io lo chiamerei Partito dell’Ulivo. Partito, perché deve essere uno strumento per la partecipazione degli elettori più consapevoli alla decisione politica; quelli che non vorrebbero soltanto andare a votare ogni cinque anni, ma anche avere un ruolo nella fase di preparazione dell’offerta politica, quando si definiscono programmi e candidature. E Ulivo, perché è in questo simbolo e nome che gli elettori hanno imparato a vedere il prodotto della dinamica fusione dei diversi riformismi. Nessuno dei quali può oggi credibilmente aspirare all’egemonia nel centro-sinistra; ciascuno dei quali è necessario per costruire una forza egemone. Come dimostra il doppio fallimento dei tentativi del riformismo socialista (dal Pds ai Ds) e del riformismo cattolico-liberaldemocratico (Margherita) di fare da soli.
Tuttavia, se il nome partito spaventa perché induce a vedere più il vecchio che si supera (i Ds, la Margherita, lo Sdi), che il nuovo che si costruisce, va benissimo Federazione dell’Ulivo. Del resto, anche se lo chiamassimo partito, si dovrebbe dunque trattare di un soggetto politico di tipo federativo. Dove «federazione» (non facciamo lo stesso errore di Bossi) sottolinea il processo di unificazione dei diversi soggetti, non la loro permanenza nello stato di perfetta autonomia precedente il foedus.
L’essenziale, è la chiarezza delle risposte ai quesiti di fondo: si formano o no organismi dirigenti unitari della Federazione, in grado di prendere decisioni impegnative per tutti i soggetti federati? Questi organismi decidono anche a maggioranza? A questi organismi, i partiti assegnano o no una quota della loro sovranità, specie in tema di scelte sul come si va alle elezioni e sulla politica delle alleanze? Alla Federazione, possono o no aderire direttamente - risultando perciò stesso titolare di diritti (voto nelle primarie per la scelta dei candidati che la Federazione proporrà all’intero centro-sinistra per le cariche monocratiche, da sindaco a presidente del Consiglio)- anche i cittadini non iscritti a nessuno dei partiti federati? e infine: esistono o no i gruppi parlamentari (o consiliari) degli eletti della Federazione, che decidono anche a maggioranza, votando senza vincolo di disciplina al rispettivo gruppo di partito, sulla base del principio una testa, un voto?
Quando vedo proporre per la Federazione dell’Ulivo (o comunque si deciderà di chiamarla) il modello della Federazione Cgil, Cisl, Uil, debbo prendere atto che si risponde negativamente a tutte queste domande. Esattamente come si è fatto negli anni che ci separano dal 1996, da Gargonza in poi. E penso che ci stiamo preparando a perdere di nuovo: o da Berlusconi, o dai neocentristi. Quando vedo che già oggi - dopo aver raccolto 10 milioni di voti e senza avere neppure avviato la Costituente della Federazione - si pretende di decidere che non ci saranno le sue liste alle prossime regionali, penso che - se si hanno intenzioni sincere, in tema di Federazione - si dovrebbe almeno attendere che ci siano organismi nazionali e, soprattutto, regionali della Federazione stessa, in cui discuterne e decidere.
Allo stesso modo, però, quando constato che i deputati di Uniti nell’Ulivo per la prima volta si riuniscono e votano sul decreto Iraq; o quando 77 senatori su 110 chiedono ai loro presidenti di gruppo di potersi riunire per dar vita a gruppi federati, vedo che esistono le forze per vincere le resistenze conservatrici (quelle di chi pensa che il centro-sinistra possa vincere anche restando così com’è, per il solo demerito degli altri) o l’opposizione - del tutto legittima, ovviamente - di chi persegue un’altra ipotesi di riorganizzazione del centro-sinistra (la Federazione della sinistra che si allea col partito di centro).
Del resto il vero atto di coraggio la leadership del centro-sinistra (Prodi e i congressi di Ds, Margherita e Sdi) l’ha compiuto quando ha deciso per la lista di Uniti nell’Ulivo. Quello è stato un vero azzardo, che richiedeva coraggio. Ora, per andare avanti, basta un po’ di coerente fermezza.
È giusto - anzi, è necessario al successo dell’intera operazione - che siano gli iscritti ai partiti (ai Ds, per quel che ci riguarda) a decidere col voto sia sulla scelta di aderire alla Costituente della Federazione, sia sui caratteri che essa deve assumere. Fu un errore - poco meno di un anno fa - non accogliere la mia proposta di tenere un referendum nei Ds sulla decisione di dar vita alla lista Uniti nell’Ulivo. Un errore cui potrà e dovrà mettere rimedio il prossimo congresso nazionale dei Ds: bisognerà che le mozioni siano scritte in modo tale da rendere possibile ad ogni iscritto di pronunciarsi col voto - nel modo più semplice e chiaro - sui due quesiti essenziali: primo, sì o no alla Federazione; secondo, cosa precisamente noi proponiamo che sia, questa Federazione.
La lista unica è stata un azzardo che ha richiesto coraggio. Ora è il momento della fermezza per andare avanti in quella direzione