Ne ho lette di tutte sul concerto di
Simon e Garfunkel a Roma. Ho anche sentito l’ignobile special su LA7 di domenica sera. Ho perfino digerito a fatica il solito report di Luzzatto Fegiz sul Corriere (incredibile come il Corriere possa permettersi di pubblicare simile spazzatura senza perdere lettori, sarà che la spazzatura è esattamente ciò i suoi lettori chiedono?) Pochi hanno detto o scritto cose sensate, io ho letto solo Toni Jop su l’Unità. Fatto sta che il concerto si riassume in poche parole. Un evento memorabile, la celebrazione di un genio assoluto (
Paul Simon) e di un esecutore eccelso (
Art Garfunkel). I due, in cinquant’anni di amicizia, hanno maturato un’affinità che resiste al tempo, alle mode e alla mancanza di “allenamento” assieme. In due ore S&G hanno proposto tutto quello che di significativo hanno inciso nel corso della loro (breve) carriera di coppia (a cui si è aggiunta la splendida “My Little Town” che cantata assieme acquista ulteriore gusto). Hanno celebrato i loro ispiratori, i sempre arzilli Everly Brothers, invitandoli a far parte dello show con tre pezzi storici. Senza un’esitazione (a differenza del concerto in Central Park, quando si impappinarono sull’attacco di The Boxer), hanno sfoggiato voci ed energia da giovanotti. La sola concessione all’età è la modulazione di un tono verso il basso prima della terza strofa di “Bridge Over Troubled Water”, Art è un pelo arrochito e nella tonalità originale avrebbe corso qualche rischio. Band – come ci si poteva aspettare – straordinaria, energica quanto basta. Sono anche riuscito a intravederli, da lontano, un paio di volte. Insomma, una sfacchinata, ma bisognava esserci.