Fa’ qualcosa di sinistra
di Lidia Ravera
Diamoci la sveglia con Michael Moore
Facciamoci un regalo, qualcosa che ci ridia rabbia per agire, nervi combattenti, via dal letargo estivo, di nuovo in piazza. Diamoci la sveglia con Michael Moore, andiamo tutti a vedere “Fahrenheit 9/11”. Io l'ho fatto, insieme a decine di vacanzieri giunti agli ultimi giorni della vacanza, nel tardo pomeriggio, nel cinema della città di mare,l'ho visto con intere famiglie ancora con gli infradito ai piedi e la sabbia nei capelli, distratti, scettici. Li ho ascoltati chiacchierare prima della proiezione. Uno diceva. “È un americanata”. Un altro (bermuda, camiciotto svolazzante) faceva il superiore: “È pura propaganda”. A chi nominava con rispetto la palma d'oro, rispondeva sicuro: quello è un premio politico, sono tutti nella stessa “banda”. Fuori dal cinema, quando siamo usciti, era già quasi buio, ma l'atmosfera era cambiata. Nessuno parlava. Qualcuno si soffiava il naso, cercando di tornare alla dignità della leggerezza, obbligatoria nelle villeggiature, dopo aver pianto. Dopo aver riso a disagio. Dopo aver guardato, per due ore, la realtà documentaria d'una tragedia dove colpevole non è il fato, ma l'uomo. I suoi interessi, il suo cinismo. Una classe, i suoi interessi. “Farheneit 9/11” è innanzi tutto un capolavoro rabelaisiano, un moderno flaubertiano Bouvard o Pecuchet… il ritratto impietoso di George doppiovù Bush, eletto con l'imbroglio, credenziali per intraprendere la carriera di Presidente: figlio di suo padre. La camera ce lo rimanda tutto contento di sé stesso, ammiccante ad ogni tipo di obbiettivo e totalmente vuoto fra una posa e l'altra. Moore danza attorno ai suoi occhietti crudeli e insipidi, alla sua banalità di eterno gitante, ai suoi “strike” di golfista, alla sua canna da pesca, alle sue passeggiate da ranchero superaccessoriato, alla sua cordialità fasulla, alla sua superficialità avida da bambino viziato. Moore lo sorprende mentre stringe la mano ad arabi d'alto lignaggio (i potenti sauditi, la famiglia Bin Laden), sorprende i suoi collaboratori mentre sintonizzano le loro balle sulle sue in un coro angelico di retorica western senza spessore e senza ragioni. Moore svela, documenti alla mano (se non li avesse sarebbe già in una delle accoglienti galere americane), trame e crimini, bugie e paradossi. Uscendo ho sentito il bisogno di rompere il silenzio atterrito in cui eravamo precipitati: “Mi chiedo se questo film è il ritratto perfetto di un semplice cretino, o il ritratto semplice di un perfetto cretino” Tutte e due? Tutte e due. Ma se nel film ci fosse soltanto questa operazione, per così dire, psichiatrica, non sarebbe così sconvolgente. Utile, intelligente, ben fatto, ma non terribile, non così atroce. Perché è rischioso e triste che il Paese più importante del mondo sia governato da un cretino, ma è farsa, non dramma. Purtroppo, a contrappunto delle gesta mediatiche dello “stupid white man”, c'è il pianto delle madri, un dolore debordante, assoluto, uno strazio che l'insistenza della regia rende intollerabile, come è giusto che sia. C'è una grassa grigia donna irachena che invoca Allah, c'è una grassa bionda americana che invoca Dio. Hanno perso quello che avevano di più prezioso. Tutte e due. E piangono e gridano che non è giusto. La grassa irachena è la madre del nemico, la grassa americana è una che ha votato Bush, patriottica e repubblicana. Tutte e due sono donne povere, senza potere, senza diritto di essere ascoltate. Tutte e due piangono senza speranza, senza poter sognare un riscatto. L'americana non voterà più Bush, l'irachena rimpiangerà il dittatore Saddam che almeno non bombardava la sua casa. Non c'è democratico che possa cancellare il sangue versato. Il sangue dei ragazzi americani che, intervistati da Moore, appaiono rimbecilliti dalla techno-propaganda (quant'è fico ammazzare con la musica che ti sballa in cuffia) o sconcertati dalla scoperta del male: rozzi e ignoranti, o sensibili e ignoranti. Tertium non datur. Il sangue degli iracheni, quelle immagini che ci torturano da due anni: bambini martoriati, arti amputati fasciati malamente, sguardi annichiliti dal terrore. Ma sì, fatevelo, questo regalo, andate a vedere al cinema il sottotesto negato di tanti telegiornali. Quelle poche frasi di commento che chiudono la antologia dei misfatti e, proprio perché rompono l'oggettività delle immagini e dei dati, suonano tanto più forti e definitive: la guerra la combattono i poveri. Ci guadagnano i ricchi. O direttamente, perché vendono armi, catering da prima linea, ricostruzione di quanto fin lì distrutto, oleodotti. O indirettamente, perché la guerra serve a mantenere in vita questa società corrotta e destinata ad autodistruggersi se non si espande, se non deborda, se non schiaccia, se non uccide. Il capitalismo.
Nessuno dei figli dei deputati del Parlamento Americano è al fronte.
Nessuno dei figli dei nostri deputati e senatori è a Nassirya, non ci sono carabinieri fra i rampolli del centrodestra. Ma se sono così sicuri che è lì che dobbiamo stare, perché non ce li mandano, i loro figli?
In Iraq, i nostri falchi virtuali, non ci mettono piede, semmai il tempo di una ripresa, di due fotoricordo,e subito a casa, a riempirsi la bocca di retorica tricolore. In Iraq ci è andato, da solo, senza protezione e senza strumenti per comunicare, un uomo di pace, uno di quelli che proprio non ce la fanno a non farsi coinvolgere dal dolore lontano. L'hanno ammazzato prima ancora che scadesse l'ultimatum su cui, comunque, il nostro governo aveva intenzione di glissare. Perché? Dobbiamo aspettare che sia Michael Moore a raccontarcelo?
non serve continuare a darci ragione vicendevolmente. quello che temo è che finché ne parliamo tra noi quel film, non facciamo altro che crogiolarci confortevolmente in ciò che già sappiamo/pensiamo. ovvio che bush sia un bugiardo. il problema sorge quando parli di quel fim con chi sta dall'altra parte: o non lo va a vedere per principio o, se nella migliore delle ipotesi va a vederlo perché spinto da curiosità o da amici, lo vede come una mistificazione. un'operazione costruita ad hoc, come un servizio di Ballarò o una sequenza di Blob. e l'elettorato americano, sentivo ieri sera Zucconi a Primo piano, difficilmente si farà convincere. Insomma è un film forte, tremendamente giusto, ma, temo, anche tremendamente diretto solo alle persone già indignate con bush. la convention lo dimostra.
Zucconi non è significativo: è pagato per sostenere un'opinione - come la maggior parte dei suoi colleghi - e lo fa con cinica professionalità. Il film di Moore ha un valore enorme in patria, dove le percentuali di votanti sono invime. Può infatti agire nell'enorme magma di persone che non votano, ma a cui manca un quantitativo minimo di motivazione per farlo. E' chiaro che Schwarzy non cambierà idea, ma - per fare un'esempio - personaggi quali il protagonista di He got game (http://www.biraghi.org/archives/003146.html), che non ha mai votato, ma voterebbe democratico, andando al seggio possono fare la differenza che ci libera di Bush. Tra l'altro la strategia di Moore è questa da tempo: nei suoi libri invita costantemente a indurre a votare chi non vota. Farhenheit forse non sposterà voti, ma sicuramente ne porterà di nuovi a Kerry.
sono scettico, poi magari hai ragione tu. così come sono scettico anche sul fatto che zucconi sia pagato per sostenere un'opinone: vive da anni, ama a suo modo quel paese, sa come si muove il cuore di quel paese, e mi pare tipo abbastanza smaliziato. e che opinione poi sarebbe "pagato per sostenere"? quella che bush vince, perché?
il protagonista di he got game (film bellissimo, come tutti quelli di spike lee, appunto per questo ti invito a riflette su che farebbe invece il protagonista della 25 ora) è appunto uno stereotipo molto romantico, distante forse dalla realtà di chi comunque pensa che i musulmani siano tutti indistintamente pericolosi e che comunque "sono loro che ci hanno attaccati, è gusto difendersi" , gente di cui è piena l'america. anche e sopratutto tra i ghetti neri. c'è molto più orgoglio nazionalista di quanto si creda nei ceti più bassi. chi può fare più cambiare idea può essere invece un artista come springsteen, che non si è mai schierato apertamente, e lo fa oggi per la prima volta, spiegando le sue ragioni. E' il solito discorso: gridare come fa l'Unità al complotto, ti rende sono antipatici i potenziali nuovi elettori. io, per esempio, preferisco il manifesto.