Shakespeare nel cassonetto? Colpa del regista. Spiace per Al Pacino
Alberto Crespi
Shakespeare nel cassonetto? Oh, il vecchio Will sarebbe felicissimo! Chi più di lui mescolava sacro e profano, cultura alta e cultura bassa? Chi ha messo, nella stessa opera, gli interrogativi di Amleto (essere o non essere?) e gli scherzi dei becchini sulla tomba del povero Yorick? Chi ha fatto di Falstaff il più grande filosofo e il più fetido concentrato di oscenità della storia? Shakespeare è il padre di tutti i monnezzari, e proprio per questo Michael Radford, nel suo Mercante di Venezia visto qui al Lido fuori concorso, lo ha tradito. Shakespeare al cinema non ammette mezze misure: o si è alla sua altezza (come Orson Welles, come Akira Kurosawa) o lo si butta in vacca (come Baz Luhrmann in Romeo+Juliet, come i ragazzacci della Troma in Tromeo and Juliet, come il sommo Lubitsch di Vogliamo vivere dove un nazista commentava la prova di un attore dicendo «tratta Shakespeare come noi trattiamo la Polonia»). Se si sta a mezzo il guado, si ottiene quello che il nostro vecchio amico Lindsay Anderson definiva - e avreste dovuto con quale smorfia di disprezzo - «lo Shakespeare della Royal Shakespeare Company», lo Shakespeare ingessato, destinato ai turisti in cerca di gadgets a Stratford-on-Avon. Nel migliore dei casi, si ha Kenneth Branagh; nel peggiore, film come questo Mercante, che qui a Venezia devono aver preso solo per motivi geografici.
Volete sapere la verità? Non si può fare Il mercante di Venezia a Venezia. Si cade nella cartolina. Ed è un peccato, perché il testo è ancora meravigliosamente sconcertante nella sua ambiguità e nella sua modernità. È un puzzle con il quale William sapeva di prenderci in giro per i secoli dei secoli. Fin dal titolo: il Mercante è Antonio, una delle più colossali «tinche» che Shakespeare abbia rifilato ai suoi colleghi attori, un personaggio senz'anima, squallido, ravvivato solo dalla sua repressa e suggerita omosessualità; e tutto il dramma gira sui due colossali caratteri di Shylock, l'usuraio ebreo, e di Portia, la «filosofa» che letteralmente «dirige» il processo finale e impone ai maschi la propria, più alta, morale. In questa edizione, se non altro, questi due personaggi sono affidati ad attori all'altezza: Shylock è Al Pacino, il vero motivo per cui s'è fatto il film; Portia è Lynn Collins, una ragazza che assomiglia vagamente a Cate Blanchett ed è quasi altrettanto brava. Anche Antonio è ben servito: Jeremy Irons è perfetto. Dove invece casca l'asino, oltre che sugli stucchevoli esterni veneziani (con abili accorgimenti, a Rialto e a San Marco, per non inquadrare vaporetti e turisti), è nel gruppo di giovanotti che fanno corona all'aspirante sposo di Portia, Bassanio. Lì, campeggia immenso l'unico inglese che non sa recitare: Joseph Fiennes, fratello immeritato di Ralph. Dite pure che è tutta invidia, ma restiamo ogni volta esterrefatti di fronte all'assoluta inespressività di questo giovanotto. Ma forse Fiennes esiste perché chi lo vede sullo schermo pensi: se ce l'ha fatta lui, ce la posso fare anch'io. È la famosa frase che diceva, di sé, Robert Mitchum. Lui scherzava. Fiennes no.
Quello che ho appena letto non è un commento,ma un massacro ingiustificato al lavoro del regista.
Non è facile riportare sul grande shermo e dopo così tanti anni un capolavoro del genere...che soprattutto non interessa a poi così tanta gente.
E inoltre...se il mercante di Venezia non si fa a VENEZIA...dove lo si deve girare?!Non è il film che farebbe rivoltare nella tomba Shakespeare,ma questa affermazione assurda.