Un’Italia tutta Ferrari e mozzarella?
GIANNI MATTIOLI
29 Settembre 2004
Giuliano Amato e Carlo De Benedetti riprendono (”La Repubblica” 21/9/04) il tema cruciale della deindustrializzazione dell'Europa e dell'Italia, nel quadro della tenuta degli Usa e dell'avanzata impetuosa dei grandi paesi asiatici. “Dovremmo trovare una missione nuova, un nostro modo specifico di stare nel mondo, ma non abbiamo una mappa del futuro e fatichiamo a portarci all'altezza degli eventi che ci circondano. Bisogna allora provare ad uscire dalla logica del giorno dopo giorno, che caratterizza inevitabilmente il dibattito politico, e aprire nel paese un confronto serio e approfondito sul modello di produzione e più in generale di economia per il nostro futuro e quindi sulla missione dell'Italia e dell'Europa nel sistema globale del XXI secolo”. Produzioni di qualità - auto sportive, moda e design, formaggio, vini, cultura e turismo - possono rappresentare, secondo gli autori “una strada possibile per l'economia italiana”, senza dimenticare “la difesa dell'ambiente”.
Dunque a dieci anni dal rapporto Delors c'è chi scopre che il rilancio dell'economia e dell'occupazione non potrà venire dai settori produttivi tradizionali, in particolare dal “manufacturing”, ma dai settori ove si produce e si vende “qualità della vita”. Non posso che compiacermi per questa acquisizione, soprattutto da parte di chi ha responsabilità significative nella redazione delle proposte programmatiche per l' “Ulivo”, e nel contempo vorrei suggerire maggiore equilibrio, prima di dichiarare chiusa la prospettiva industriale. Credo che le cose stiano insieme peggio e meglio di come vengono descritte da Amato e De Benedetti.
C'è una questione energetica che riguarda assolutamente tutti i paesi del pianeta: sul controllo del petrolio è stata intrapresa una guerra sanguinosa. Il fatto che essa abbia scatenato conseguenze ben più vaste non deve far dimenticare la motivazione della guerra di Bush. Le risorse disponibili e la organizzazione del loro impiego non sono compatibili con il modello attuale di produzione e consumo. Ma questo modello è anche incompatibile - oggi, non per il futuro - con l'equilibrio del pianeta, in particolare con la stabilità del ciclo climatico. Queste considerazioni sono incredibilmente del tutto assenti nel testo di Amato, come sono lontane dalla usuale riflessione della economia e della politica. Ma questo è un punto essenziale: energia, sconvolgimento climatico sono una gravissima emergenza o soltanto retorica ambientalista?
E c'è poi la questione strutturale che è di fronte al mondo pur globalizzato e cioè il fatto che la dimensione della “capacità di spesa” da parte del mercato cresce ad una velocità molto inferiore all'aumento di produttività: da qui la competizione esasperata, che induce spreco di risorse, precarietà del lavoro. Ma da questo punto di vista le prospettive per gli Usa o per il Giappone non sono, a medio termine, migliori di quelle europee.
È da questi fatti che viene la indicazione drastica - e non solo all'Europa, non solo all'Italia - della necessità di cambiare modello. È questo il problema della “Sostenibilità”, oggi all'ordine del giorno, in primo luogo, per tutti i paesi industrializzati.
Non ritengo che la risposta possa consistere nel ritagliarsi - nello sfacelo circostante - una nicchia felice a base di Ferrari, mozzarella e scarpe di lusso, da offrire “alla generazione nuova dei Paesi emergenti in grado di apprezzare i consumi di qualità, sinonimo del gusto e del successo sociale”, ma in un processo di cambiamento, graduale ma deciso, da un sistema basato sostanzialmente sul soddisfacimento di consumi individuali, alla produzione di ben vivere collettivo: prevenzione sanitaria e sicurezza alimentare, certo, ma anche riqualificazione urbana, energie pulite e rinnovabili, mobilità delle persone e delle merci, acqua, tecnologie per i rifiuti o per la difesa del suolo.
Trasformare ad esempio il sistema dei trasporti, paralizzato e inquinante, in una mobilità delle merci e dei passeggeri affidata sì ad una ristrutturazione della logistica, ma anche, in larga misura, a veicoli ad idrogeno, idrogeno prodotto con fonti energetiche rinnovabili, non appartiene ad un modello di deindustrializzazione, di fuga dalla ricerca di innovazione tecnologica, così come riqualificare città invivibili o disporre delle tecnologie supersofisticate (ed esportabili) per il consolidamento statico dei centri storici o per la difesa del suolo o per garantire il ciclo integrato dell'acqua.
Si tratta dunque di innescare un processo di cambiamento, verso attività produttive mirate a vivere meglio, che richiede conoscenza scientifica, ma anche incentivi e fiscalità appropriati, per creare le convenienze, in una società di mercato, perché questa trasformazione si possa realizzare. E richiede anche capacità di governo da parte della politica perché questo cambiamento rappresenti in definitiva il miglioramento del “ben vivere” per tutti, il soddisfacimento cioè dei diritti universali di cittadinanza.
È una prospettiva forse più di sinistra di quella di scegliersi, come missione, unicamente le produzioni di lusso per le élite del mondo, anche se, con l'ingresso di un po' di cinesi e di indiani, fossero un po' aumentate di numero.