Mobbing
di Furio Colombo
L'Unità 3/10/2004
Avvertenza ai lettori. Se non ci fosse l’Unità, se all’improvviso questo giornale, per le ragioni del mercato (niente pubblicità, meno pagine, meno copie) dovesse una mattina non essere più in edicola, non leggereste questo articolo né niente, anche più tenue, indiretto, moderato, in difesa di Simona Torretta e Simona Pari, su un altro giornale. Ciò che sta accadendo, che l’Unità e Antonio Padellaro hanno già denunciato, è un attacco che si disloca tra sarcasmo, disprezzo e accusa, contro le ragazze scampate allo sgozzamento, una sorta di persecuzione rumorosa e mirata che rimbalza - forse per emulazione - fra giornali rivali (Libero, Il Giornale, di cui pubblichiamo le truculente aperture nelle pagine interne) e nei testi sacri del fondamentalismo occidentale, guidati da Il Foglio. Tutti gli altri giornali, per grandi che siano, tacciono. Il fenomeno si chiama “mobbing”. È un parola americana diventata comune in Italia. Vuol dire quando un branco di teppisti si accorda per isolare e tormentare qualcuno, fino a cacciarlo (dal lavoro), a espellerlo (dalla scuola), a screditarlo (fra i suoi colleghi e i suoi vicini), a indurlo alla resa e alla fuga. Il mobbing si può fare a una condizione: coloro che non partecipano devono stare zitti. Una sola intromissione, una sola voce libera, e il mobbing diventa impossibile.
Questo per dire che cosa sta succedendo in Italia. Da giorni e giorni un mobbing furioso, volgare, violento è cominciato contro Simona Torretta e Simona Pari. Dicono gli esperti che il mobbing quasi mai è completamente gratuito. Qualche ragione, magari una piccola cosa, c’è sempre. Nel caso di Torretta e Pari ci sono - più o meno esplicite - tre ragioni: sono donne e dovrebbero stare zitte. Sono pacifiste e dovrebbero vergognarsi. Sono vive e avrebbero dovuto tornare solo come salme per una bella cerimonia di unità nazionale, come prova evidente che la guerra di civiltà è scoppiata davvero. In quel caso, donne o non donne, nessuno avrebbe negato loro l’Altare della patria. Disgraziatamente sono tornate vive. E come se non bastasse, dopo avere guastato la festa unitaria che era pronta per loro («le lacrime non sono né di destra né di sinistra», avrebbe nobilmente dichiarato qualcuno in un appropriato talk show politico-funerario), queste sfacciate parlano. Parlano come se l’Italia in cui stiamo vivendo fosse un Paese normale.
Questo è un altro punto su cui voglio richiamare con senso di allarme ciò che sta accadendo. Il mobbing a due ragazze, tornate a casa dopo essere sopravvissute a un grave e imminente rischio di morte, oggi non sarebbe possibile in alcun Paese democratico al mondo, occidentale o no. Non lo sarebbe perché gli autori del mobbing sarebbero severamente zittiti dagli altri organi di televisione e di stampa, perché chi ha voce pubblica e capacità di farsi sentire non tacerebbe, perché articolisti, editorialisti e rubrichisti per un giorno dedicherebbero qualche paragrafo a condannare l’infame spettacolo italiano. Invece silenzio. L’ostinazione a non vedere, non sapere, non notare ha avuto un suo piccolo exploit la mattina del 2 ottobre, quando Marco Taradash, un ex deputato di Forza Italia che il sabato legge la rassegna della stampa di Radio Radicale, ha detto: «Oggi l’Unità ha davvero passato il segno con il titolo: “Il linciaggio delle ragazze liberate”». Stranamente non ha visto, o non gli ha fatto alcun effetto, il titolo di Libero dello stesso giorno: “Ci hanno stufato: le due Simone petulanti superstar di stampa e Tv” (apertura, pag. 1).
E ancora: “Pontificano sui bravi guerriglieri mentre Al Qaeda lancia minacce all’Italia”, (pag. 1). (Si noti la mancanza di nesso fra la prima e la seconda parte della frase). E a pag. 2: “Prima sproloquiano sulla guerriglia, poi si pentono ma alla fine ci ricascano: i cattivi sono gli americani”.
È lo stesso giorno in cui l’altro quotidiano di destra, Il Giornale, titola “Rivolta contro le due Simone”. “Nelle lettere degli italiani, critiche, rammarico e sdegno”. Le lettere dei lettori di destra (spesso più oltranzisti del loro quotidiano preferito) a un giornale di destra vengono presentate come “le lettere degli italiani”. Il titolo è grave anche perché può suonare come un appello alla rivolta che finora non c’è stata, salvo due svastiche sotto casa, quando le due ragazze erano ancora prigioniere. Anzi c’è sempre sul portone una piccola folla che fa festa. Ma tutto ciò non impressiona l’ex deputato di Forza Italia che ogni sabato conduce la rassegna stampa di Radio Radicale. Malafede di Taradash? Qui affiora qualcosa che fa più paura. Una volta stabilito un solido regime mediatico e un unico modo di dare notizie, con il silenzio totale, immediato e complice di chi permette il trionfo delle interpretazioni di regime, diventa oggettivamente difficile cogliere il senso di una voce anomala che sfida il silenzio. Strano che avvenga in casa dei Radicali, che il silenzio non l’hanno mai accettato. Ma è avvenuto, e bisogna segnalarlo come un sintomo insolito e allarmante.
La stagione di caccia, un po’ ignobile e decisamente estranea alla democrazia, si è aperta quando Gianfranco Fini, pur essendo il vicepresidente del Consiglio italiano, ha pubblicamente e drammaticamente dichiarato: «Guerra al pacifismo». Lo ha fatto di fronte a una platea di giovani e di ragazzi che tipicamente, data l’età, non sono inclini a interpretare le parole come metafora. Guerra vuol dire guerra, e il pacifismo viene indicato come un nemico contro il quale è necessario combattere. La domanda che svela il tormento italiano nel quale viviamo è sempre la stessa: potrebbe una cosa simile accadere in un altro Paese? Potrebbe uno come Fini, con il ruolo che riveste, dire ciò che ha detto senza essere duramente attaccato - o almeno criticato - dalla stampa di qualunque Paese non intimidito, senza una televisione non colonizzata? Si tenga conto che la solenne dichiarazione di guerra al pacifismo da parte del numero due del governo è avvenuta mentre le due italiane erano ostaggi di cui non si aveva notizia, mentre si ricevevano terribili annunci della cui attendibilità, allora, non si sapeva nulla. Si tenga conto che - negli stessi giorni - tutta l’opposizione si era impegnata al silenzio per dare prova di unità nazionale. Quel silenzio - evidentemente - non era considerato vincolante per Fini. E neppure per il titolare di un’altra istituzione repubblicana, la Commissione Affari Esteri della Camera.
In piena prigionia delle due Simone, il presidente di quella Commissione, Gustavo Selva, ha proposto una domanda che era stato proibito porre a proposito dei primi ostaggi italiani, i quattro “addetti alla sicurezza”. Ha detto: «E poi, quando tornano, ci dovranno spiegare che cosa facevano quelle signore in Iraq». Naturalmente Selva avrebbe potuto telefonare a “Un ponte per...” nel caso che gli fossero sfuggite le storie, note a tutti, delle due Simone. Ma Selva, in un gioco di staffetta non proprio nobile, però giustificato dalla “guerra al pacifismo” già dichiarata da Fini, doveva aprire la strada al dottor Scelli, commissario straordinario della Croce Rossa italiana. Scelli ha parlato, tra conferme, mezze versioni, smentite e altre conferme, di un oscuro elenco di spie, forse quello che i sequestratori avevano in mano al momento del rapimento delle due Simone, e che Scelli ha definito “elenco americano”, ripetendo non si sa a quali fini e perché, in Italia e in pubblico, ciò che gli sarebbe stato detto da mediatori non identificati.
È buon materiale per un racconto di Graham Greene o per un romanzo di John Le Carré. Ma in quelle narrazioni tutti i personaggi sono sporchi, ambigui e dediti all’avventura. Noi, invece, stiamo parlando dell’Italia di oggi, di fatti e persone realmente esistenti e titolari di funzioni istituzionali o di responsabilità nell’informazione. Stiamo citando tra virgolette cose dette davvero, pubblicate davvero, nel silenzio del resto della Repubblica, come non potrebbe avvenire in alcuna democrazia del mondo. E ci permettiamo di nuovo di far notare ai lettori che se questa storia non l’avessimo raccontata noi, non ci sarebbe. La vicenda della persecuzione alle due ragazze colpevoli di essere tornate vive mancherebbe per sempre dall’archivio italiano degli anni di Berlusconi e di Fini. È un appello a coloro che comprano ogni giorno l’Unità.
Della totale mancanza di logica e della situazione piuttosto tragica in Italia ne parla pure la BBC con tanto di fotina delle due in prima pagina:
l'articolo della bbc mostra la distanza esistente tra giornalismo e la fogna meleodorante della propaganda italica su carta e video.
I padroni pagano dei pennivendoli, usi ad esser servi, per sputar veleno sulla miglior parte di questo paese. Sono privi di vergogna perche' il loro solo metro di giudizio e' la quantita' di denaro che rubano.
Un tempo almeno si contenevano un po' per paura di esser gambizzati. Adesso la loro sola paura e' quella di essere raffrontati a chi ha deciso di vivere secondo dignita'.
Cento giornalisti non possono nemmeno baciare le suole a una sola Simona.
Tonii ma ti rileggi prima di postare?
sono troppo fuori dal coro?
:-)
causa queste vicende, da baldoni in avanti, e le letture portate su questo blog, da un paio di mesi sono costretto a venire a conoscenza dei terrificanti scritti di felrti, fin ora volutamente narcotizzati dalla mia mente "intollerante". Constato una violenza progressiva e sempre più soffocante in quest'uomo e in chi scrive nel suo giornale, nei confornti di chiunque sia o abbia a che fare con il volontariato in iraq. Quasi fosse un gesto in sè immorale voler portare aiuto a una popolazione civile che nulla ha a che fare con chi ha deciso e combattuto questa guerra.
Oggi adirittura Libero, non nella persona di feltri stesso (ma ne è responsabile lui, visto che il giornale è suo) se la prende con gli indumenti indossati dalle due simone al momento del loro arrivo. Ma fino a questo ci dobbiamo attaccare? Ai vestiti "non da cristiani"? Troppo alternativi? ma dove cazzo siamo, io dico.
Tralascio le parole, al limite dell'insulto personale da stadio e arrivo al dunque: certe cose non si scrivono, neanche per scherzo. certe cose sono cose che van lasciate al bar. Senza tentre di ammantarle di una qualche parvenza di razionalità o di "sana provocazione". Metterle nero su bianco senza vergona è una violenza alla cultura, al ragionare e al pensare e un invito al rincoglionimento progressivo. E' il nulla, il trionfo di questa destra volgare e arrogante, che sa solo insultare chi non riesce a capire.
le due simone era ovvio che sarebbero state sul cazzo alla destra nel momento in cui non si sarebbero allineate con l'italico pensiero modello greggio e iachetti: "de superficie", non prendo niente sul serio, non ho pensieri, e quini piglio per il culo tutto, dicendo in giro che sono sane provocazioni, salutari al dibattito e alla democrazia. E la superficie, sentendosi inferiore al pensiero, ha bisogno di attaccarlo, come può. Per ovvia invidia. Le due simone sono belle e pensanti. Quindi sucitano invidia nell'italiano medio. E questo basta.
“Finanza creativa” e bossing
Quando l’azienda licenzia un dipendente “scomodo”, colpevole di aver denunciato una clamorosa “frode” ai danni dei consumatori. Dal sito internet www.censurati.it
di carlo madaro, Data 20 ottobre 2005 - 315 letture
Ha denunciato l’alterazione, da parte della Compagnia d’assicurazione da cui dipendeva, dei dati relativi ai sinistri e di risarcimenti “gonfiati”a vantaggio di alcuni “fortunati”ed a danno dei molti consumatori.
Ha denunciato la politica della Compagnia d’assicurazione che aveva fissato per ogni dipendente degli obiettivi da raggiungere in termini di numero di sinistri, loro liquidazione e aperture pratiche. Ha denunciato chi imponeva ai dipendenti di alterare i numeri e i dati delle pratiche, aprendo anche due posizioni per sinistro per lo stesso incidente, pur di raggiungere il traguardo prefissato.
Contro questo dipendente è cominciato, prima, il mobbing e poi si è passati al licenziamento.
Questa è, in sintesi, la storia di Giovanni D’Agata, un altro caso di mobbing “paramafioso e violento” nella “tranquilla”provincia italiana.
Ci troviamo a Lecce, negli uffici di una delle sedi della ben nota compagnia d’assicurazioni, La RasService S.c.p.a. Ed è qui che Giovanni D’Agata, ex ufficiale dei carabinieri e funzionario liquidatore presso quell’agenzia, ha sporto la sua denuncia contro la “finanza creativa” dell’ufficio. Sono subito partite le indagini degli inquirenti: il pm della Procura di Lecce, Imerio Tramis, ha aperto un fascicolo d’inchiesta sull’intera vicenda, che poi è stato trasmesso anche alla Procura di Milano, perché nel capoluogo lombardo si trova la sede legale della compagnia di assicurazioni. Gli avvocati di Giovanni D’Agata, Carlo Madaro e Piergiorgio Provenzano, hanno anche presentato un esposto all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato del cui esito ancora non abbiamo notizia. Di più, secondo quanto sostengono gli avvocati dell’ex funzionario, gli atti dell’inchiesta porterebbero alla scoperta di un cartello di compagnie che opera in maniera truffaldina ai danni degli utenti.
La storia di mobbing di Giovanni D’Agata s’inserisce in questo contesto assai complesso, di denuncia di gravi abusi e di inchiesta sugli estremi di associazione a delinquere finalizzata ai danni dei consumatori. Un bel melting pot all’italiana: accusa di estremi di reato, mobbing e poi un licenziamento iniquo.
La storia dell’ex funzionario parte da molto lontano, ed è quella di una professionalità solidamente costruita attraverso gli anni, con molta esperienza. All’età di ventidue anni, nel 1978, Giovanni entra per la prima volta nella struttura di un’assicurazione come libero professionista, per poi essere assunto nel 1986, con contratto a tempo indeterminato, prima come liquidatore e poi come responsabile dell’ufficio. Il suo ruolo prevedeva le specifiche mansioni di ispettore liquidatore della zona di Lecce e provincia, reggendo da solo e senza l’ausilio di impiegati amministrativi, anche parte della provincia di Taranto e Brindisi.
In seguito ai grandi accordi di fusione tra le compagnie assicurative (Allianz Subalpina spa e Ras spa), Giovanni D’Agata viene integrato nella nuova struttura lavorativa della RASSERVICE alle dipendenze di un supervisore di provenienza Ras, e responsabile dell’intero ufficio.
I rapporti tra Giovanni e il suo superiore sono entrati subito, irrimediabilmente, in conflitto; al primo veniva contestata l’uscita dall’ufficio, secondo gli orari contrattuali, ed intimato di proseguire fino a tarda sera anche il venerdì. Nel contempo, egli si rese conto che qualcuno visionava le sue pratiche sulla scrivania, lasciandole poi deliberatamente in disordine affinché lui se ne accorgesse.
Lo scontro maggiore ci fu, poi, quando il capo ufficio tentò di imporgli quelle procedure “farraginose” e non conformi alla tecnica liquidativa e su cui stanno indagando due Procure. In pratica, attraverso aperture fittizie di sinistri, omessa chiusura di incidenti liquidati e imputazione di pagamenti alterati, si cercava di migliorare, sotto il profilo strettamente matematico e statistico i risultati dell’agenzia. Inutile dire, che ad un secco rifiuto a tali procedure da parte del funzionario, i suoi rapporti con il capo entrarono definitivamente in collisione.
Oltre al mobbing ciò che si stava evidenziando erano gli estremi di una clamorosa frode ai danni della collettività.
“Ciò che va ricordato è che tali manipolazioni, se eseguite a livello generale, possono provocare conseguenze a catena, che incidono sul mercato delle assicurazioni, ricadendo sul consumatore, che può giungere così a pagare premi più alti di assicurazione”, sottolinea l’avvocato Provenzano.
Giovanni capì, subito, che questa storia presentava contorni ben più gravi, a chiaro sfondo penale, ed iniziò ad annotare sul suo taccuino le altre procedure che venivano “viziate” all’interno dell’ufficio. Come ad esempio, il pagamento ai medici fiduciari, al di sotto di quanto stabilito dalla legge.
La sua posizione divenne così scomoda da gestire che, ad un certo punto, gli vennero addirittura revocati tutti gli incarichi e sospese tutte le pratiche. Questa notizia lo portò al collasso e all’immediato ricovero in ospedale, dove gli venne diagnosticata una “grave sindrome depressiva reattiva”. Per questa malattia, Giovanni si assentò dal lavoro per più di tre mesi. Si sottopose ad una serie di accertamenti medici, sia psicologici che psichiatrici, che sottolinearono la “correlazione causale con situazioni lavorative avversative del Mobbing”, ricorda il dott.Benfatto che fece la diagnosi di “disturbo post traumatico da stress”.
Giovanni D’Agata rientrò al lavoro nel settembre del 2002 e si ritrovò a non avere alcun incarico da lavoro e nessuno, all’interno dell’ufficio, era disposto a fornirgliene alcuno. Anzi, come da manuale del mobbing, le uniche pratiche che gli venivano attribuite erano le semplice fotocopie delle pratiche altrui.
Arrivò il momento della denuncia presso la Procura di Lecce e Giovanni D’Agata venne anche convocato presso la sede di Milano, dove, apparentemente, fu ringraziato per aver dato comunicazione dei fatti che accadevano negli uffici di Lecce.
Ma si trattò di un bluff: Giovanni rientrò in ufficio e si scontrò nuovamente con il suo capo per un banale episodio relativo ad una pausa caffè non autorizzata, e si “meritò” addirittura quattro giorni di sospensione. Questo fatto provocò altri gravi contraccolpi nel precario stato di salute di Giovanni, che si assentò dal lavoro per altri due mesi.
E’ evidente, in tutta questa faccenda, che sia l’azienda che il capo ufficio hanno svolto in egual misura da“elementi fortemente stressanti”, stigmatizzando di volta in volta i comportamenti del funzionario. E in quest’ottica hanno proseguito, nel tentativo di emarginarlo e di metterlo in chiara difficoltà, sino a portare Giovanni ad un ulteriore collasso ed a una lunga malattia.
Rientrato al lavoro, il “tunnel del mobbing” non era ancora arrivato in fondo: prima gli vennero affidate delle pratiche di agenzie non più esistenti e poi, vennero affisse in bacheca le valutazioni dei liquidatori comunemente utilizzate in quel settore(tempi di liquidazione, percentuale di scarico etc....), dove, lui, chiaramente, risultava ultimo. Lo scopo di tale affissione, in altri termini, non era altro che l’ennesimo atto prevaricatorio e discriminatorio nei suoi confronti. Ma non l’ultimo.
Last but not least Giovanni D’Agata è stato, infine, licenziato. Ancora oggi, sta pagando le conseguenze di questo licenziamento e i contraccolpi psico-fisici che questo grave stato di tensione, vissuto in ufficio, hanno avuto sulla sua salute. La sua disavventura umana e professionale ha fortemente segnato la sua vita e quella della sua famiglia. A Lecce, attende, fiducioso, che la giustizia faccia il suo corso. Resta,quindi, ai giudici l’ultima parola.
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> “Finanza creativa” e bossing
6 novembre 2005
vorrei che deste attenzione al seguito di questa vicenda, che è terribile!!!
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> strategie d’oltreoceano: il caso Enron
7 novembre 2005, di : carlo madaro |||||| Sito Web: strategie d’oltreoceano: il caso Enron
Il mobbing inferto al Sig. D’Agata Giovanni è strategico di provenienza d’oltre oceano e sperimentato nella Enron (lo scandalo americano dove sono coinvolte soc. come la McKinsey e l’Andersen consulting: le stesse,non a caso,di questa storia.) Da "American Lies" di Alessandro Spaventa:" In un libro uscito nell’ottobre del 2001 dal titolo THE WAR FOR TALENT, tre consulenti della Mckinsey descrivono l’elemento fondamentale che, a parer loro, distingue le aziende di successo: . Per la Mckinsey e i suoi epigoni il sistema, l’azienda, è forte tanto quanto lo sono le sue star, i suoi talenti. Negli anni Novanta, la cultura del talento si diffonde a ritmi vertiginosi in tutta Corporate America. Le idee della Mckinsey, come sempre, diventano una bibbia, e Skilling ne è uno dei profeti più entusiasti. Il suo staff arruola ogni anno centinaia di giovanissimi diplomati MBA, strapagandoli e promettendo loro opportunità mirabolanti. , dichiara Ken Lay ai consulenti Mckinsey in visita alla sede della Enron a Houston, . Alla base della visione Mckinsey - e quindi della Enron - c’è un processo chiamato " differenziazione e affermazione " o, nella più volgare traduzione nel linguaggio enroniano, rank and yank, ovvero mors tua, vita mea. Il meccanismo è spiegato con brutale chiarezza dagli autori di The War for Talent, secondo i quali una o due volte l’anno i dirigenti di un’azienda devono sedersi al tavolo e dividere i dipendenti in tre gruppi: A,B e C.Quelli del gruppo A devono essere stimolati e remunerati ben oltre il loro impegno. Quelli del gruppo B devono essere incoraggiati e aiutati. Quelli del gruppo C vanno rimessi in carreggiata oppure licenziati. Alla Enron, il sistema viene applicato quasi alla lettera. In ogni divisione, per due volte all’anno si riunisce il comitato per la valutazione dei risultati, che assegna a ciascuno dei dipendenti un punteggio da 1 a 5 sulla base di 10 differenti criteri. Ai primi in classifica vengono corrisposti bonus di due terzi superiori rispetto ai colleghi, mentre agli ultimi non spettano nè incentivi nè stock opsions. In certi casi, i dipendenti meno brillanti vengono semplicemente mandati a casa. Il sistema, apparentemente lineare, anche se crudele, è in realtà una specie di prova di sopravvivenza, un attraversamento del Nilo su una corda sottile. A ispirare il meccanismo, infatti, è la cultura del "tagliafuori", nella qulae le fortune degli uni sono legate a filo doppio alle sventure degli altri. E’ fin troppo facile immaginare che cosa succede quando al malcapitato di turno toca essere esaminato dai colleghi mentre si affanna a spiegare i risultati semestrali sotto un tabellone sul quale campeggia la sua foto. Il sistema si presta anche a manipolazioni malevole. Può accadere che, per mettere qualcuno in cattiva luce, i membri del comitato cambino ad arte le cifre dei contratti. Spiega un ex dirigente della Enron: A casusa della complessività dei calcoli, ci possono volere settimane prima di capire che cosa sia stato cambiato. Per allora o il contratto era già stato bocciato oppure venivi licenziato. CHIUNQUE NON ABBRACCI LA CULTURA DEL " TAGLIAFUORI " VIENE ETICHETTATO COME UNO CHE "NON CI ARRIVA", UNO "SCOPPIATO", UNO "SCARTO" CHE VERRA’ FATTO FUORI AL PROSSIMO GIRO. Le sessioni di valutazione diventano un incubo per i meno spegiudicati, per chi per un motivo o per l’altro non ce la fa, e soprattutto per chi non riesce a realizzare il budget assegnato da Lay, Skilling e Fastow al mometo della definizione degli obiettivi. Chi non raggiunge la cifra prevista, quasi sempre fuori portata, corre il rischio di essere "riposizionato", ovvero, nel linguaggio enroniano, di essere spostato presso un altro dipartimento, per poi essere sottoposto a una nuova decisione". Da quello che emerge dalla lettura dell’emistichio tratto dal citato libro del Prof. Spaventa, il mobbing subito dal Sig. D’Agata è spietato e conseguente alle denuncie di irregolarità poste in essere, presentate all’autorità giudiziaria scaturite dai valori che lo contraddistinguono. Attendiamo l’esito delle decisioni che il Gip di Lecce sta per intraprendere in questi giorni circa il rinvio a giudizio per lesioni colpose ed altro a carico del capo ufficio e forse di altri. Carlo Madaro
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