Giorgio Galli, il bipartitismo impossibile
Bruno Gravagnuolo
Bipartitismo imperfetto. Fu la formula di successo lanciata da Giorgio Galli negli anni 70. Con la quale il politologo milanese designava l’anomalia italiana: due grandi partiti destinati a non alternarsi, e a paralizzarsi a vicenda. Con la Dc da un lato. E un Pci «socialdemocratico», ma non abilitato a governare. Oggi quella formula è solo un lontano ricordo. E semmai conviene Galli - 76 anni e decano tra i politologi italiani - potremmo parlare di «multipartitismo imperfetto». E di «bipolarismo selvatico», cioè a impossibile legittimazione reciproca tra poli. Vale a dire, professore? «Vale a dire che c’è un Berlusconi figlio della crisi dei 90. Magnete della destra, ma ormai in panne. Che tuttavia è ancora l’ostacolo principale ad un sano e fisiologico bipolarismo. Dopo chissà.... magari c’è Casini sulle ceneri di Forza Italia. Visto che Fini e Follini non mi paiono dei giganti...».
Ma non soltanto della destra vogliamo parlare con Galli, che proprio in questi giorni ripubblica aggiornato il famoso manuale su cui si son formate legioni di studenti alla Statale di Milano: I partiti politici italiani, 1943-2004 (Rizzoli, pagg. 494, Euro 9,50). Vogliamo parlare del sistema politico italiano. E del ruolo dei partiti: svuotato, contestato e controverso. Ma a giudizio di Galli, inestirpabile. Benché la società sia cambiata in senso «post-democratico» (per dirla con il Colin Crouch di Postdemocrazia - Laterza- stracitato nel nuovo manuale). E poi vorremmo cercare di capire se la sinistra deve mantenere o no un suo partito storico centrale. E se insomma il nostro bipolarismo deve includere due grandi partiti avversari all’americana, o viceversa assestarsi su un «bipolarismo di coalizione». Con partiti più grandi e partiti più piccoli (le «mezze ali»). Domande difficili. Alle quali Giorgio Galli - d’accordo in questo con Giovanni Sartori - replica così: «Il bipartitismo all’americana non appartiene all’Italia e all’Europa. E tutto spinge verso un bipolarismo di coalizione. Ovvio che in questo c’è grande spazio per i Ds, che devono mantenere visibilità e radicamento. Per fare da ancora, e da baricentro nel centrosinistra e assorbire le spinte più radicali a sinistra». Ma adesso cominciamo.
Professor Galli, crisi del welfare, ruolo dei media e delle lobby - come lei scrive oggi - hanno atrofizzato il ruolo dei partiti. Eppure quelle elencate, sarebbero altrettante buone ragioni per un loro rilancio. Non le pare?
«Sì, e d’altra parte dalla mia analisi non consegue affatto una diagnosi di morte dei partiti. Penso solo che i partiti non possano essere più quelli di una volta: grandi partiti di massa pigliatutto e di apparato. Sopratutto nella crisi attuale della democrazia rappresentativa. Tuttavia, non vedo nessuna istituzione in grado di surogare la loro funzione essenziale. Cioè, elaborare un programma, selezionare classe dirigente e consenso, e su tale base governare. Senza tutto questo non c’è democrazia rappresentativa. Ovviamente i partiti devono cambiare. Aprirsi alle generazioni nuove, ai movimenti e alla società civile».
I partiti devono selezionare gli interessi, oppure sono per loro natura trasversali e «pigliatutto»?
«No. Selezionano gli interessi ed elaborano un programma su priorità definite. Assieme alle elites in grado di attuarlo. Non funzionano più invece come agenzie di socializzazione, e come comunità di valori. E proprio per il crescente ruolo dei media. Nonché per il venir meno dei confini di classe. Il che naturalmente non significa che gli operai non ci siano più. Tutt’altro. Il lavoro dipendente cresce. Ma è parcellizzato e proiettato fuori dalla fabbrica: sul territorio. In sintesi, alcune funzioni dei partiti vengono meno, altre permangono. E permane soprattutto il loro ruolo di selettori degli interessi, nella direzione dell’interesse generale».
La destra italiana però s’è organizzata bene a riguardo, malgrado l’anomalia privatistica che essa incarna. Con il leader unico e il ceto medio ribelle. E il resto attorno, a far «blocco». Non è così?
«Su questo ho qualche dubbio. I blocchi sociali si costruiscono sul lungo periodo. Forza Italia nell’ultimo decennio non ha costruito un blocco sociale, bensì un consenso elettorale trasversale. Partite Iva e individualismo proprietario diffuso, non bastano a cementare un blocco sociale. Di fatto le elezioni amministrative ed europee mostrano che questo “blocco” si è incrinato in pochi anni. Perciò c’è un consenso elettorale fluido, innervato su alcuni interessi, come il fisco. E che include una certa cultura individualistica. Ma se ci fosse un vero blocco, i giochi sarebbero già chiusi. Viceversa la partita del consenso è molto in bilico e apertissima. E la sinistra deve esserne consapevole».
Forse l’incertezza dipende anche dal fatto che «l’anomalia Berlusconi» non si consolida proprio per i suoi vizi d’origine: appare illegittima e incapace. E tuttavia, come calamita di massa ha funzionato, eccome il berlusconismo. O no?
«Certo, Berlusconi sconta un vizio d’origine. Ma esattamente per questo non può consolidare un blocco sociale di lungo periodo, con interessi ben definiti. Ovvero qualcosa di paragonabile - con segno invertito - alla coalizione di interessi che sorresse il New Deal di Roosevelt. Oppure, per meglio dire, all’era della Tatcher. Solo potenzialmente quello berlusconiano è un blocco sociale. Ma per ora si manifesta unicamente come consenso elettorale. E con una combinazione di valori molto eterogenei: liberismo, antieuropeismo, confessionalismo, tradizionalismo nazionale, localismo leghista. Già ora però, commercianti e piccoli imprenditori cominciano a dissociarsi da questo governo. Per la sua manifesta incapacità, e per il suo andare a tentoni, senza un vero orizzonte strategico».
Dovrebbe essere la sinistra a sparigliare i giochi, e ad archiviare «l’impossibile blocco» berlusconiano. E invece, anche su questo versante, c’è incertezza e incerta egemonia...
«Qui la situazione è molto composita. E occorrerebbe in realtà proporre un proprio blocco, per impedire all’avversario di saldare il suo. Ma le divaricazioni sono ancora troppo forti a sinistra. Siamo passati dall’alleanza progressista con il centro di Segni e Martinazzoli, alla grande alleanza di oggi, da Agnoletto a Mastella. Con dentro un pezzo di centro tradizionale, forze della sinistra storica e ambientalista, e il radicalismo di Rifondazione. Un panorama enormemente frastagliato...
In campo c’è l’ipotesi del partito riformista - «timone» o federazione ulivista - affiancata da un’area più radicale. Domanda: non c’è il rischio di ulteriori divisioni tra Ds e Margherita all’ombra del partito riformista, e con in più la crescita di Rifondazione?
«Fin dal profilarsi della seconda entrata in scena di Prodi non ho mancato di esprimere i miei dubbi su una “lista unica” intestata a Prodi senza Prodi, ancora impegnato in Europa. Tuttavia il tentativo di dar vita al soggetto politico che oggi chiamano federazione, potrebbe rivelarsi utile. In fondo il 31,1% non è risultato da buttar via, benché inferiore alle attese. Innegabili peraltro sono anche i conflitti e le incertezze che hanno accompagnato tutte la discussione sulla Federazione. Quanto al Bertinotti che cresce, non credo che affonderebbe di nuovo Prodi, come nel 1998. I rischi e i giochi al rialzo potrebbero esserci. Ma potrebbero venir arginati bene dalla presenza del simbolo dei Ds alle elezioni. Quello che però al momento non si riesce a capire è il rapporto tra la Federazione/Partito e la Grande Alleanza. È su quest’ultima che batte l’accento, oppure no? E poi che fine fa in prospettiva la discussa Federazione? Quanto al “partito riformista”, sarebbe l’ennesima conferma dell’ennesima anomalia italiana. Qualcosa di eccentrico rispetto al’Europa. Dove a forti partiti socialisti si contrappongono partiti conservatori e cristiano sociali...
Al momento Prodi ha scelto di privilegiare la Grande Alleanza sulle «cessioni di sovranità» federali, poi si vedrà...
«Sì, ha optato per la via pragmatica. Parziali cessioni di sovranità senza sbocchi immediati, e lancio dell’Alleanza più vasta. Mi sembra una buona scelta...
Ma lei come giudica la decisione del gruppo dirigente Ds, in favore di un «soggetto riformista» e non più di un grande partito socialista?
«Conferma l’anomalia italiana. Che nasce a tale riguardo da lontano: dal Pci. Ebbene il Pci, che arrivò al 34% a metà degli anni 70, era già sostanzialmente un partito socialdemocratico a radici di massa. Che nell’immaginario collettivo appariva ancora come partito marxista e leninista, con o senza trattino. Poi c’era un Psi al 10, 12%. Un capitale di voti dissoltosi con Tangentopoli. Siamo quindi passati da una sinistra con forza europea, attorno al 45%, a una sinistra ristretta attorno al 25%. Il problema a questo punto investe anche la responsabilità della generazione post-berlingueriana. Sono arrivati sulla scena giovanissimi, e hanno realizzato un importante risultato nel 1989. Scongiurando il tracollo del partito, e portandolo addirittura al governo. Con grande rabbia della destra. Tutto questo li ha molto logorati. E ciò spiega le loro esitazioni e i loro limiti. Credo che la questione capitale a questo punto sia la seguente: l’ascesa di una nuova generazione di trentenni al comando dei Ds. Ma fino ad ora è mancata, e nemmeno si intravede.
Veniamo alle primarie invocate da Prodi. Novità benefica oppure ulteriore anomalia italiana, già scontata in partenza?
«Le primarie sono state un’invenzione americana del primo 900, per contrastare le lobby impadronitesi dei partiti. Dunque, soluzione specifica a un problema specifico. Da noi sono diventate di moda al tempo dell’elezione diretta dei sindaci, nel corso della polemica contro la partitocrazia ancora troppo invadente nell’imporre i suoi candidati. Oggi mi pare un’idea superata. Anche perché i due candidati sono definiti da tempo: Prodi e Berlusconi. In realtà tutto nasce dal fatto che il primo non è espressione del partito più forte della coalizione. E non ha in realtà una base partitica, visto che la Margherita è in mano ai suoi competitori. Prodi, ha certamente bisogno di un’investititura che lo metta al riparo da sorprese. Ma allora non chiamiamole primarie. Si invitino semplicemente i potenziali elettori dell’Ulivo ad un referendum confermativo. Altrimenti è legittimo che si presentino diversi candidati, se ci sono. Con programmi diversi e opposti, e selezionati da ciascun partito. Visto che per loro natura le primarie, a cui tutti possono iscriversi, esprimono sempre un candidato di partito».
nessuno commenta? nessuno che abbia nulla da dire?
finche si parla di stronzate tipo i suv o la cultura di valentino rossi tutti a cianciare e quando si parla di cose serie tutti che svicolano?
o tempora, o mores!
Cosa vuoi commentare? E' una analisi obbiettiva e realistica. Quasi tutti gli esponenti della sinistra non sono altro che una paccottaglia di presuntuosi isterici e arroganti. L'unico obbiettivo che hanno (come la maggior parte dei politici attuali di dx o sx)è quello di sistemare il loro culo e accaparrarsi più soldi e benefici possibili. Gente che nella vita non saprebbe far altro. Sono stati al governo, ma invece di governare hanno fatto opposizione all' opposizione (leggi Berlusconi), tagliandosi per questo le palle da soli. E non tirate fuori la storiella che B. ha vinto pechè controlla l'informazione. Ma dove? I quotidiani più diffusi e prestigiosi sono di sinistra (Repubblica in primis, segue Corriere , Stampa etc. etc), il 90% dei giornalisti televisivi sono di sinistra (inclusi quelli che lavorano per le reti mediaset, con la sola eccezione del tizio di rete 4). Quando la sinistra era al governo le reti pubbliche RAI e sottolineo pubbliche, in particolare RAI 3, sembravano canali gestiti da bolscevici.
La sinistra ha perso e perderà ancora perchè i suoi rappresentanti non sanno far altro che sfogare le loro incapacità e inettitudini su quello che è diventato il caprio espiatorio delle loro frustrazioni e incompetenze.
E' vero, la sinistra è allo sbando, soprattutto per colpa dei suoi leader.
Risparmiatemi però questi commenti alla Emilio Fede, del tipo "I quotidiani più diffusi e prestigiosi sono di sinistra, il 90% dei giornalisti televisivi sono di sinistra."
Ma per favore! Corriere e La Stampa possono al massimo definirsi neutrali, equidistanti dai due poli. E cosa vogliamo dire poi di Panorama, il Tempo, il Messaggero, il Giornale, il Resto del Carlino?
Le TV pubbliche sono in mano a uomini vicini alla maggioranza, l'unica eccezione è Rai3 (e chi non ci crede vada a leggersi i nomi dei consiglieri Rai, dei direttori di rete e dei direttori dei tg). Le TV Mediaset sono naturalmente gestite da uomini di Berlusconi (solo Mentana riesce a mantenere una linea super partes grazie alla sua autorevolezza). Chi resta? La7; che dire? 2 dei 3 opinionisti sono giornalisti simpatizzanti del centrodestra (Battista e Giulianone Ferrara), il restante Lerner è un uomo di sinistra (peccato che vada in onda il sabato sera, quando pochi lo possono vedere...).
in alto il post!
ma non per dire le cazzate lette sul "giornale".
cosa ne dice la gente "di sinistra"? (che non vuol dire un cazzo, io sono comunista marxista-leninista, saro' "di sinistra"? Se la "sinistra" e' quella che va dai ds ai disobbedienti, spero di no)
cosa vuol dire nel 2004 essere di sinistra e riconoscersi nella delega elettorale con gli attuali sistemi?
cosa ricordano del loro passato, per la maggior parte, da "comunisti"?
cosa pensano del passato e del presente della classe dirigente "di sinistra"?
scusi dott. biraghi se faccio un poco le sue veci (feci) ma l'argomento dovrebbe interessare gran parte dei frequentatori di questo spazio, che immagino gente di ceto medio alto e con una istruzione superiore; egregi frequentatori del blog del biraghi, la classe dirigente potreste essere voi (prima o poi).
che ne dite?
Tra la "gente di sinistra" mi piace molto Sansonetti. Ecco cosa dice
http://www.onemoreblog.org/archives/003812.html
ecco, come volevasi dimostrare, Asor Rosa e' uno di quelli "di sinistra" che sarebbero da buttare nel cesso, lui e la sua spocchia professorale, ma ve lo ricordate l'ammasso di cazzate che diceva contro il "movimento" nel 1977?