Caro Giancarlo, tu poni questioni che naturalmente sono in cima ai pensieri di noi tutti dal momento che ci accingiamo a percorrere una strada che rappresenta certamente per noi una novità, quella di trovare un accordo programmatico con il centrosinistra e di trasformare questo accordo, in caso di vittoria elettorale, in un efficace programma di governo, nel quale impegnare direttamente le nostre stesse forze. Infatti questo sarà uno dei temi dominanti nella nostra discussione congressuale che, come avrai potuto vedere, sulle righe di questo giornale è già cominciata, dopo la pubblicazione di un mio contributo articolato in 15 tesi. La discussione quindi è destinata a continuare e a sfociare nel nostro sesto congresso nazionale che terremo alla fine dell'inverno.
Poiché tu ti mostri soprattutto preoccupato del rischio di perdere la nostra identità e della effettiva difficoltà di trovare un'intesa su alcuni temi, qui mi limito ad accennare una risposta, ma cerco di farlo su due piani; il primo, un po' inconsueto in questa rubrica, coinvolge anche riflessioni di tipo filosofico, il secondo riguarda più direttamente i temi e le scadenze politiche.
Sull'ultimo numero della rivista Alternative (alla quale collaboro stabilmente assieme a tante altre compagne e compagni del nostro partito e non) è comparso un importante articolo di uno dei più grandi filosofi viventi, Paul Ricoeur, dedicato alla fragilità dell'identità. L'articolo, che peraltro riassume un suo intervento ad una conferenza internazionale di qualche anno fa, solleva questioni di grandi importanza e per la loro natura anche di immediata attualità e traducibilità sul piano politico, anche se non è certo questa l'intenzione principale dell'Autore. Tanto è vero che l'articolo è stato quasi interamente riprodotto questa estate su uno dei massimi quotidiani nazionali. In ogni caso ti e vi rimando ad una lettura integrale di questo testo assai denso e pregnante.
«Che cosa rende fragile l'identità?» si chiede Ricoeur e fornisce almeno tre risposte, di cui qui vorrei prendere in considerazione particolarmente le prime due, che possono riguardarci direttamente.
La prima causa della fragilità riguarda il rapporto difficile che l'identità ha con il tempo. Essendo quest'ultimo uno dei termini essenziali di riferimento su cui si misura qualunque politica, è evidente l'interesse che per noi hanno le argomentazioni del filosofo. Egli giustamente dice che vi sono fondamentalmente due tipi di identità, quella per cui una cosa, o una persona, o un collettivo sono uguali a se stessi, cioè restano medesimi e immutabili, e quella per cui gli stessi si mantengono identici nel loro divenire e nel loro agire, ad esempio mantenendo fede alle promesse fatte. La diversità fra i due tipi di identità non potrebbe meglio essere espressa (Ricoeur usa anche termini latini per chiarire questa diversità, ovvero l'identità come idem e l'identità come ipse). Ma ciò che più contano sono le conseguenze cui questa diversità porta. Nel primo caso si giunge ad una sorta di follia identitaria, che consiste precisamente nello scadere dalla capacità di restare fedeli a se stessi attraverso il tempo, perciò con una necessaria duttilità, alla rigidità inflessibile di un carattere. La follia identitaria applicata ai popoli può portare alla conservazione ossessiva delle tradizioni, difesa anche con la violenza. Se viene applicata agli individui conduce ad una sorta di memoria melanconica ripiegata su stessa. Se la applichiamo ai partiti o in generale alle formazioni politiche porta a spingerli a costruirsi una nicchia entro il sistema dato, nella quale si può vivere restando uguali a se stessi per periodi quasi infiniti, ma svolgendo obiettivamente una funzione conservatrice rispetto all'ordine di cose esistente. Mi pare chiaro che noi dobbiamo scegliere la seconda strada, per cui il mantenimento dell'identità coincide nell'agire e nel divenire, per mantenere le promesse che costituiscono la nostra ragion d'essere.
Ma torniamo ancora alla riflessione del filosofo. La seconda causa della fragilità dell'identità consiste nel fatto che il confronto con l'altro da sé è percepito come una minaccia. In questa concezione la semplice esistenza dell'altro, del non uguale a sé, metterebbe in discussione l'identità.
Anche questo spunto analitico può essere applicato ai popoli, ai partiti, alle persone. E sempre con esiti negativi, alcune volte addirittura tragici. Si pensi ad esempio ai genocidi, ai razzismi e alle xenofobie che hanno caratterizzato la storia dello scorso secolo. Si pensi ai settarismi ideologici che hanno paralizzato o pesantemente viziato la capacità di iniziativa di intere formazioni politiche. Anche qui è evidente che la strada che dobbiamo scegliere è esattamente opposta, cioè quella di consolidare la nostra identità in un rapporto di relazione con l'altro senza evitarlo e senza pensare di fagocitarlo.
Accennerò ora di sfuggita alla terza causa individuata da Ricoeur, perché il suo svolgimento, peraltro ancora più interessante, ci porterebbe troppo lontano, ad esempio a rivisitare le radici di quel pensiero della nonviolenza di cui abbiamo più volte parlato e su cui ritorneremo. Il nostro filosofo afferma giustamente che alla base della fragilità dell'identità vi è inoltre «l'eredità della violenza fondatrice». Sulla scorta anche delle famose ricerche di un altro filosofo-antropologo come Renè Girard, il nostro Autore afferma che non esiste alcuna comunità che non sia nata da un rapporto originario con atti di violenza e con la guerra. Lo Stato di diritto ha preso per sé il monopolio della violenza, ma non per questo ha cancellato questa origine. Il non superamento di questa terza causa della fragilità dell'identità, spinge la ricerca di sicurezza nel perpetuarsi dell'aggressività, tra persone e Stati, fino alla logica rielaborata da un famoso pensatore politico, cui fanno riferimento anche le moderne teorie politiche reazionarie (e purtroppo non solo), cioè Carl Schmitt che impose la dicotomia tra amico e nemico. La guerra preventiva, infinita e indefinita teorizzata dai neoconservatori americani e praticata dall'amministrazione Bush, costituisce la più recente applicazione e implementazione di questa teoria. Non a caso, anche nel modo di parlare corrente, noi abbiamo rifiutato di usare la categoria concettuale e l'espressione "nemico", utilizzando quella assai diversa di "avversario", cioè di persona o collettivo che si vuole e si può battere senza ricercarne la distruzione.
Quindi dando per scontato che ogni identità, personale o collettiva, è fragile, il modo per difenderla e irrobustirla, non è quello di renderla immobile e immutabile, ma al contrario di farla vivere in un confronto continuo con il divenire del tempo, con l'altro da sé, con una pratica di confronto e non di annullamento di chi non è uguale a noi. In termini politici riferiti a noi stessi, significa che la nostra identità di comunisti coincide con l'avanzamento del processo rifondativo, con la capacità di mantenere le promesse disattese, con l'accettazione del principio della contaminazione con culture e pratiche diverse.
Detto tutto ciò abbiamo solo bene impostato il problema, ma ancora non risolto. Nessun problema d'altro canto si risolve in base a principi generali, ma sempre nel concreto. Tu indichi diversi temi su cui vi è o vi è stata polemica tra noi e il centrosinistra o parte di esso. Sono convinto che nessuno di questi problemi sia di per sé insuperabile, se si segue un metodo corretto e non si evitano le questioni di fondo quanto al merito. Quando parlo di metodo mi riferisco essenzialmente alla necessità di portare al più presto - siamo già in ritardo! - la riflessione programmatica tra noi e il centrosinistra al giudizio del nostro potenziale elettorato, dei movimenti, delle associazioni. Abbiamo bisogno di comprendere quale è la selezione dei temi che possano caratterizzare in modo assolutamente comprensibile un programma di alternativa alle politiche delle destre. Abbiamo bisogno di comprendere quale è l'orientamento prevalente rispetto alle questioni che ci dividono dal centrosinistra o che sono in discussione tra le varie componenti dello stesso. Tutto questo non è un lavoro che si possa fare solo tra esperti, deve coinvolgere da subito il popolo della sinistra, proprio perché quel programma dovrà essere sostenuto dai movimenti, altrimenti resterà senza applicazione, visto che da sola la leva del governo difficilmente potrà essere sufficiente.
Ma non dobbiamo essere pessimisti. Pur tra molte difficoltà, ondeggiamenti e tentativi di ritorno indietro, non mi pare ci possa essere dubbio nel dire che l'asse del centrosinistra su molte questioni si sia più riavvicinato che allontanato dalle nostre posizioni e da quelle dei movimenti. La riunione dei segretari di partito di qualche giorno fa lo ha registrato e in questa direzione è andato infatti il commento di tutti i più importanti osservatori, sia simpatizzanti che antipatizzanti.
Voglio fare qualche esempio, partendo da quello della guerra in Iraq. Qui noi segnammo un indubbio risultato con la mozione comune di qualche tempo fa sul ritiro delle truppe italiane. Poi si sono verificate diversificazioni di giudizio e di posizione, che hanno fatto temere ad un'aperta rottura. Questa però non vi è stata. Anzi ci stiamo preparando alla presentazione di una nuova mozione comune, il cui testo è in gestazione in queste ore, sulla convocazione di una conferenza internazionale di pace e il ritiro delle truppe d'occupazione a partire da quelle del nostro paese, che andrà in discussione nella settimana entrante, comunque prima del grande appuntamento pacifista e antiliberista previsto con la manifestazione del 30 ottobre a Roma.
Contemporaneamente ci stiamo attrezzando per una comune battaglia contro l'iniqua legge finanziaria, sia a livello parlamentare, con la presentazione di emendamenti comuni, oltre che di altri nei quali sottolineeremo nostre specifiche proposte, quindi di evidente caratterizzazione identitaria; sia e soprattutto a livello di massa, conducendo campagne nel paese sui principali temi economici e sociali ed avendo già fissato una grande manifestazione di massa per il prossimo 6 novembre sempre nella capitale, che vedrà tutte le forze di opposizione unite contro la legge finanziaria avanzare proposte di politica economica alternativa.
Da qualche tempo, comunque da prima delle elezioni e anche dell'appeasement con Prodi, Bertinotti è il più ragionevole ed equilibrato dei dirigenti del centrosinistra. Non so se la cosa faccia ridere o sorridere, ma da non bertinottiano non posso che riconoscerlo.