Ebrei contro israeliani
Avirama Golan
Nel ponte che unisce Bnei Brak al campus dell'Università Bar-Ilan, il mese scorso, è comparso sul muro un nuovo slogan: «Comandante, noi siamo ebrei. Non posso fare questo».
Cosa l'autore dello slogan non possa fare è fin troppo chiaro: non può evacuare gli insediamenti. Più del rifiuto interessante è il motivo. Il soldato citato nello slogan rifiuta di portare a compimento l'ordine non perché il suo cuore è spezzato di fronte alle famiglie costrette a lasciare le proprie case e neppure perché è convinto di una visione del mondo di destra in cui l'evacuazione da Gaza è considerata una calamità. Tutte le sue ragioni per il rifiuto si condensano in una espressione gravosa: «Noi siamo ebrei».
L'espressione è un codice che marca una differenza, come nella diaspora pre-sionista, tra un ebreo e un gentile, e permette agli ebrei qualunque cosa in virtù del loro status di vittime. E' lo stesso codice che ha condotto intere comunità ebraiche lontano dalla famiglia delle nazioni a causa del loro credo messianico, che li ha rinchiusi nei ghetti, gli ha fatto voltare le spalle alla modernità e all'umanesimo, che li assoggetta ad una sorte esclusiva determinata solo dalle mani di Dio, spogliando l'uomo della libertà di scegliere e dalla responsabilità del proprio destino.
Non è una coincidenza il fatto che i coloni hanno ripreso ad usare la parola «ebrei» nella loro lotta. Non è una battaglia per Gaza, né uno scontro per la democrazia o per la legge. Questa lotta, a proposito di un problematico e limitato disimpegno unilaterale, riporta in primo piano - come un lampione che concentra la sua luce cieca su un solo punto nascosto - la grande domanda che monta strisciante dietro la superficie dello Stato di Israele dal 1967.
La domanda, che l'opinione pubblica secolarizzata e moderata ha cercato in tutti i modi di aggirare, è quella sullo scontro tra ebraicità e "israelismo". O, per essere più precisi, tra ebraismo/giudaismo e sionismo. Il sionismo lanciò la sfida al tradizionale «Noi siamo ebrei» del rabbino Avraham Shapira e dei suoi discepoli, perché ha stabilito che il destino del popolo ebraico era una questione che riguarda l'agire umano, non quello divino. Ed è precisamente lungo questa linea erronea che i rabbini ortodossi si sganciarono dal sionismo. Il movimento religioso sionista si staccò invece dal messianismo quando entrò a far parte della normalizzazione del sionismo. Ma non per molto.
L'esperienza «ebraica» che i coloni stanno cercando ora di mantenere definisce una vita che, nel quadro del pensiero messianico, è costantemente minacciata dalla catastrofe. In questo modo, i pogroms e gli editti crudeli furono le eterne prove del destino degli ebrei.
Nel momento in cui quest'ombra di catastrofe si schiarisce, o quando un'opportunità sembra scacciare quest'ombra - attraverso accordi diplomatici o altre misure ordinarie - i coloni «ebrei» si sforzano di ricrearla con un rifiuto, una spaccatura a livello nazionale, oppure facendo saltare in aria una moschea e assassinando un primo ministro.
Il sionismo cercò di riportare gli ebrei dentro la storia, cioé in un regime moderno e democratico che opera secondo la decisione della maggioranza e che prende in considerazione i cambiamenti di circostanze.
La stragrande maggioranza dei cittadini israeliani non capisce, forse, quello che i coloni sentono nell'anima: che nel poco seducente piano di Sharon - come il piano di ripartizione pre-statale, come il ritorno del Sinai dopo la campagna del 1956 o gli accordi di Oslo - riecheggia l'aspirazione sionista alla normalità, all'adozione di valori universali, al rifiuto - ancora una volta - dell'atteggiamento messianico e distruttivo del «Noi siamo ebrei».
Il voto sul disimpegno, dunque, è uno spartiacque per i coloni. Fino al 1967, all'ombra dell'Olocausto che fece salire altre porzioni del popolo ebraico sul treno del sionismo, il messianismo fu relegato ad un angolo. La vittoria e l'occupazione nel 1967 gli garantì una nuova auge. La confusa opinione pubblica secolarizzata ha dimenticato da tempo che il sionismo ha da sempre considerato il territorio come un mezzo che consentisse ad un popolo vagabondo di approdare alla normalità. Questo è l'esatto opposto del trasformare una terra in un valore sacro.
Così, è uno spartiacque anche per gli israeliani. Se l'argomento del «Noi siamo ebrei» avrà ancora la meglio sull'aspirazione alla normalità, sarà il momento che significherà l'arresa tragica e finale del sionismo alla pazzia messianica degli ebrei.