Sinistra, tutti insieme contro la paura
Bruno Gravagnuolo intervista Paul Ginsborg
da l'Unità del 13/11/2004
«Bonding groups», «Bridging groups». Due nozioni chiave dell’ultimo libro di Paul Ginsborg, già professore a Cambridge, storico dell’Europa contyemporanea a Firenze e storico animatore dei girotondi fiorentini e nazionali. Ginsborg le ha mutuate dal lavoro del sociologo progressista, Robert Putnam che nel suo Bowling alone (giocare a Bowling da soli) ha descritto il collasso del «legame civico» nell’America neoliberista. Significano gruppi esclusivi e chiusi alla diversità, e gruppi ponte, inclusivi di essa. Aggiornando l’analisi di Putnam - e Ginsborg a suo modo lo ha fatto prima della vittoria di Bush - si può dire che gli Usa di oggi assistano al proliferare dei «bonding». Sull’onda del successo capillare neocon sul territorio: dalle Chiese battiste alle palestre di Dio. E arriviamo così per via indiretta all’ultimo saggio di Ginsborg: Il tempo di cambiare, politica e potere della vita quotidiana, (Einaudi, pagg. 254, Euro 15). Una prima replica teorica da sinistra al successo di Bush. E un’analisi a rovescio della classica «società civile hegeliana», trama di associazioni, famiglia e «corporazioni». Tuttavia, laddove questa era gerarchica e «votata» allo Stato, quella di Ginsborg è orizzontale e ascensionale, rispetto a politica e istituzioni. Insomma, è la proposta di una «politica della vita» che parta dal quotidiano. Dagli individui e dalle famiglie. E che si espande in rete convissuta, facendo leva sui «bonding groups», nuclei di relazione partecipativa. Proprio come il «Laboratorio per la democrazia fiorentino», cellula dei «girotondi» che ha dato più di grattacapo ai Ds fiorentini. Vediamo.
Professor Ginsborg, da anni Karl Rove, l’architetto elettorale di Bush, assembla in America l’elettorato neocon: palestre, congregazioni, comitati. La sinistra ha qualcosa da imparare?
«La società civile americana ha subito negli ultimi decenni un tracollo drammatico. Un declino del legame civico, molto ben descritto da Robert Putnam. Non disgiunto dalla trasformazione dei due partiti chiave in macchine puramente elettorali. Magari i repubblicani hanno letto anche loro il progressista Putnam, traendone le loro conclusioni, e contro la desertificazione dei rapporti sociali, hanno rilanciato un associazionismo religioso, protestante e di destra. Alla fine ne hanno beneficato nelle urne. Sarei cauto nel misurane la durevolezza, ma il successo c’è stato. Quel che non c’è stata invece - e qui vengo al tema del mio libro - è una mobilitazione progressista profonda e capillare, negli Usa e in Europa. Ovvero la capacità a sinistra di rifondarsi dentro una società radicalmente mutata. E di saperlo fare, non attraverso quelli che Putnam chiama “bonding groups” - gruppi identitari/religiosi esclusivi - bensì tramite i “bridging groups”, cioè gruppi inclusivi, che si connettono tra di loro all’insegna della tolleranza, della cittadinanza universale. Del riconoscimento della diversità individuale e di gruppo. Ecco, proprio questi “bridging groups” sono la cellula della società civile futura per cui mi batto».
Pensa che il tessuto civile di tali gruppi possa rilanciare la partecipazione in chiave politica, e persino etica, estetica ed esistenziale?
«Assolutamente. Ma attenzione, da soli questi gruppi non ce la fanno. Occorre guardare a fondo dentro la vita familiare, e poi dentro le istituzioni locali, per attivarli e metterli in risonanza. È tutta la sfera della società civile, che deve muoversi in senso democratico. Anche se, quando uso questo vecchia categoria non mi riferisco certo a un uso organicistico e totalizzante di tipo hegeliano. Famiglia, gruppi e istituzioni possono interagire, confliggere. Ma solo se sono entità porose, aperte, ironiche. Autocritiche sul consumo, sulle scelte di vita, sul contenuto della vita di relazione. E sulla politica. Dunque, al centro i gruppi. E ai lati, famiglie e partiti profondamente rinnovati. Altrimenti la società civile si blocca e si deprime».
Consumi, relazioni affettive, territorio, tempo libero, formazione. Sono queste le «issues» che possono rimotivare l’individuo alla politica, al di là di ogni appello illuministico alla «vita buona»?
«Capisco che il mio discorso possa apparire illuministico, e forse romantico. Però la mia impressione è che milioni di individui del nord del mondo percepiscano la loro vita come soffocata da due gabbie. Quella costrittiva del lavoro/consumo. E quella della paura, sprigionata dalla spirale terrorismo/ guerra imperiale infinita, legata alle scelte della politica estera Usa, e imperniata sugli interessi capitalistici americani. Una Grande paura - per dirla con George Le Febvre - che genera effetti dirompenti di massa. E che rimotiva gli individui alla politica, a partire dalle élites più istruite del ceto medio in Occidente».
Questa propensione all’individualismo solidale, connessa al disagio globale, non trova più nei partiti un interlocutore forte. Lasciarli a se stessi come spoglie inerti? O tentare ancora di rivitalizzarli?
«Rivitalizzarli. Ma rimettendo in discussione la “forma partito”. Divenuta ormai un sistema di baronie, gerarchizzata. Soprattutto maschile, e chiusa all’esterno. La politica - che è senz’altro una professione in senso alto - è troppo spesso pura carriera individuale. Con i politici sovente trasformati in imprenditori di se stessi».
Ma non dipende anche da un maggioritario personalizzato e «trasversale», che ha prodotto un notabilato di carriera, avulso dalla società civile e tutto schiacciato - con i partiti - dentro le istituzioni?
«Tutto questo è vero, ma dobbiamo evitare di idealizzare il passato. Accentramento e gerarchia c’erano anche prima. Anche nel Pci. Certo, col Pci ci si sentiva parte di una comunità. Ma, per dirla con Marco Revelli, un tempo si era soldati. Mentre oggi, dismessa la divisa, siamo diventati tutti civili. Ed è di qui che occorre ripartire. Invece di rimpiangere un modello glorioso, meglio inventare un nuovo modello. E non è questione di maggioritario. Il mutamento e l’allargamento del senso della politica, investe tutte le democrazie moderne».
Allo sfondamento dei confini è seguita però la chiusura oligarchica
«Certo: baronie e politica imprenditoriale. A cui nel nostro piccolo abbiamo contrapposto a Firenze, il nostro laboratorio spontaneo della democrazia. Ma da sola la società civile non riesce a imporre un nuovo corso. Abbiamo fatto infiniti dibattiti con i Ds, e loro hanno riconosciuto in pieno le nostre ragioni. Ma è cambiato ben poco».
Muro di gomma?
«Appunto. Motivo per cui il nuovo corso non può che partire dai giovani, dai quartieri, e dalle sezioni stesse dei partiti. Ma proprio lì la situazione stagna. E sopravvivono la delega e il fideismo. Sicché, torno a dire, la riforma della politica non può restare circoscritta alla società civile e ai suoi nuclei dinamici. Ci abbiamo provato a Firenze, e abbiamo fatto persino una lista, conquistando più del 12% dei voti al primo turno delle comunali. Era un messaggio, un simbolo, ed eravamo quattro gatti! È nell’interesse stesso dei partiti di sinistra raccoglierlo quel messaggio. Pena il loro insterilimento politico e anche elettorale».
Era lo stesso messaggio dei girotondi, che con i loro ceti medi riflessivi un bello scossone l’hanno dato al centrosinistra. Su legalità, diritti e altro ancora
«Sui ceti medi riflessivi non mi pento affatto. Qualsiasi analisi sociologica dimostra come il peso di questi ceti medi istruiti aumenti giorno dopo giorno. Capirlo è del tutto coerente con la migliore mentalità analitica del movimento operaio. E con le analisi gramsciane sul ruolo crescente degli intellettuali nella società di massa. Altro che vaghi discorsi sul “centro”!».
Altro tema cruciale: il lavoro, i lavori trasformati. Lavoro produttivo, e lavoro della sfera riproduttiva, simbolica. Non è un po’ laterale nell’agenda della sinistra?
«Il lavoro lo riscopriamo dentro la gabbia della vita quotidiana, con i sui ritmi, le sue sofferenze, le sue insicurezze. Prenda le condizioni dei giovani sul lavoro. Con l’ombra lunga della precarietà, dall’inizio e alla fine della vita lavorativa. È una nota saliente del nostro capitalismo neoliberista. Che può indurre le persone a non accogliere la pubblicità consumista, così stridente con la vita reale».
I ragazzi dei call-center sanno bene quel che si nasconde dietro il sorriso di Megan Gale?
«Forse. D’altra parte per gli ex co.co.co le cose sono addirittura peggiorate, malgrado la propaganda politica di Berlusconi sulla flessibilità. E sono persuaso che questa sia un pianeta del tutto trascurato del disagio latente. Più in generale sul lavoro, concordo con l’invito formulato da Alberto Asor Rosa sul Manifesto: la sinistra torni al problema centrale del rapporto Capitale-lavoro. Un punto eclissato dalla sinistra riformista».
Senza un quid di antagonismo non c’è nemmeno riformismo? E non basta auspicare un capitalismo con «regole»?
«Non mi persuade la nozione di “antagonismo”. Ma bisogna rivedere i rapporti tra Capitale e lavoro, con in vista l’allargamento della democrazia a tutti gli ambiti della vita. Non parlo della vecchia democrazia proletaria, come controllo dei mezzi di produzione. Un orizzonte superato. Alludo a forme di coinvolgimento nei processi decisionali, dal territorio ai luoghi di lavoro, imperniate su diritti. Siamo distanti anni luce da tutto questo, e addirittura in Germania si vuole abolire la cogestione. Tutto va a rovescio? Bene, è proprio il momento di ricominciare. Con un grande fermento di idee, e una grande rimescolio di partiti e movimenti. Ecco quel che dovrebbe diventare la Grande Alleanza democratica».
Scusi il politichese, ma nel suo discorso c’è molta Gad e poca Fed, o sbaglio?
«Sì, e l’ho sempre detto. La federazione dell’Ulivo mi sembra una cosa troppo ristretta. È un “bonding group” esclusivo, più che un “bridging group” inclusivo. Più bonding che bridging...».
cerco un indirizzo mail di ginsborg mi aiutate grazie augusto