Ho una proposta: la rivoluzione
di Raul Mordenti
E' davvero singolare che due temi del dibattito politico di questi giorni, (a) il significato della vittoria di Bush e (b) il significato della rivoluzione (ricordato dall'anniversario dell'Ottobre), siano rimasti del tutto separati fra loro, mentre essi sono (a me sembra) talmente collegati che non è possibile parlare di uno ignorando l'altro, e viceversa.
La vittoria di Bush significa che la potenza decisiva, e forse unica, dell'Occidente capitalistico ha scelto di essere governata da una setta di fondamentalisti apocalittici i quali prima hanno teorizzano apertis verbis e poi (ciò che più conta) hanno effettivamente cominciato a praticare la guerra preventiva permanente e il "muro" a livello mondiale. Costoro hanno scelto di considerare "non soggetto a trattativa" il proprio "stile di vita", ciò che significa (fuori di eufemismi) difendere con la forza militare, di cui sembrano avere il monopolio, una distribuzione delle risorse talmente ingiusta e squilibrata da risultare insopportabile per i quattro quinti dell'umanità e per la stessa sopravvivenza del pianeta.
Poiché un Dio maligno è solito accecare coloro che vuole perdere, qualche autorevole dirigente Ds si è affrettato a dire che la sconfitta di Kerry era dipesa dal suo eccessivo estremismo (sic!) e ha ripetuto, come un disco rotto, la favoletta della necessità di "conquistare il centro", ciò che significa solo teorizzare la necessità che la sinistra debba essere sempre e comunque al servizio di un centro, anche se questo (come in Italia) è un puro vuoto, vuoto di idee, di valori, di programmi e dunque di capacità di rappresentanza sociale (un centro dunque che davvero si merita di avere per emblema il bel volto paffutello di Rutelli-sotto-il-vestito-niente).
Quanto alla lettura diessina delle elezioni Usa, è vero esattamente il contrario: Bush non ha affatto conquistato il centro moderato (questo, semmai, l'ha lasciato al moderatissimo Kerry), ha conquistato invece il ventre oscuro e profondo dell'America fondamentalista, razzista, omofoba e guerriera, e per far questo gli è stato sufficiente appellarsi all'insicurezza e al terrore che vivono in quell'America devastata dal liberismo selvaggio e trasformare proprio quella paura in conservatorismo reazionario (all'interno) e in aggressività imperialistica (all'estero).
Se non si capisce la terribile forza della paura (il più forte dei sentimento degli umani) e la perfezione circolare del meccanismo che, al tempo stesso, genera la paura (con il liberismo) e utilizza la paura (con il consenso alla guerra), e se si fraintende la vera natura di questa operazione politico-culturale che, come si è visto, annichilisce e ridicolizza anzitutto la pallida mediazione socialdemocratica, allora si è condannati a perdere, non solo contro Bush ma anche e perfino contro il piccolo-Bush di Arcore.
Sarà pure il nostro (come dicono i post-moderni) un imperdonabile "paradigma novecentesco" ma effettivamente è oggi aperto nel mondo, più che mai, lo scontro fra Civiltà (Socialismo?) e Barbarie.
Il problema della rivoluzione, e della sua necessità, nasce esattamente da questo quadro di pericolo per l'umanità associata: come scrive Benjamin, la rivoluzione è «il ricorso al freno d'emergenza» per scongiurare la catastrofe imminente (Passagen Werk, J 61a, 3). Nessuno può più negare che siamo in pieno "stato d'eccezione", cioè che la catastrofe, quella vera (intendo dire: la fine del mondo, l'apocalisse nucleare, la crisi ecologica irreversibile, il bellum omnium contra omnes) è una possibilità del tutto aperta, anzi spalancata, di fronte a noi. Tale esito catastrofico non è solo possibile (lo è "tecnicamente" almeno dal 6 agosto 1945) ma è oggi del tutto probabile, e anzi già in atto. La miccia è accesa (per dirla ancora con Benjamin), si tratta solo di vedere se la rivoluzione riuscirà a spengerla prima dello scoppio.
Se la riguardiamo da questo punto di vista la rivoluzione d'Ottobre ci appare in tutta la sua grandezza, proprio oggi che essa ha concluso la sua vicenda storica. Conquistando per la prima volta (contro ogni teoria marxista) una statualità alla classe operaia, la rivoluzione d'Ottobre non solo ha interrotto il massacro della prima guerra mondiale, non solo ha fatto fuoruscire d'un colpo solo la Russia (un sesto dell'umanità) dal feudalesimo, non solo ha rappresentato un fattore di identità, di resistenza e di contro-potere classista per il proletariato di tutto il mondo (comprese, oggi lo capiamo, le socialdemocrazie occidentali), ma ha anche (questa la sua vera gloria!) impedito il possibile esito nazifascista della grande crisi capitalistica del Novecento, pagando per questo il prezzo inaudito di venti milioni di morti. Poi nel dopoguerra quella paradossale statualità proletaria ha funzionato ancora per decenni da laccio e da impedimento nei confronti del dispiegamento illimitato della violenza imperialista, consentendo in tal modo la liquidazione del dominio coloniale e imperialista su interi continenti. Altri problemi quella rivoluzione non ha invece saputo risolvere, altri ancora li ha perfino aggravati (penso soprattutto alla serie di identificazioni anti-marxiste fra classe e partito, e fra partito e Stato, e fra Stato proletario e rivoluzione mondiale). Ma è infantile, prima che ingeneroso, che noi comunisti dell'Occidente, dopo esserci rivelati del tutto incapaci di fare un buon uso rivoluzionario del lungo tempo storico che quella grande forzatura dell'Ottobre sovietico ci aveva regalato, ci attardiamo ancora oggi a rimproverare proprio a quella esperienza di non aver saputo risolvere i nostri problemi della rivoluzione in Occidente. Tocca invece a noi ripensare oggi e qui la rivoluzione di cui avvertiamo l'impellente, storica necessità; e fin d'ora sappiamo che essa non somiglierà affatto alla rivoluzione d'Ottobre, esattamente come questa non somigliò affatto né a Spartaco né alla Comune di Parigi (anche se essa si chinò su quelle rivoluzioni del passato con rispetto ed affetto, non con rinnegamenti e abiure). I marxisti dovrebbero sapere per primi che ogni tornante della storia pone problemi del tutto inediti, e richiede per essi soluzioni del tutto nuove. Semmai si tratta di salire come nani sulle spalle dei giganti che ci hanno preceduto, per guardare più lontano, anzitutto facendo tesoro delle loro esperienze per non ripetere i tragici errori di quei giganti. Per ironia della storia, proprio il permanere di ciò che possiamo definire "paradigma sovietico" (ruolo dirigente del partito, estrema centralizzazione, conquista manu militari del potere statuale, inevitabile burocratizzazione del potere, etc.), dopo aver funzionato per decenni come un fattore di mobilitazione rivoluzionaria per i proletari di tutto il mondo, si è invece trasformato oggi (e ormai da tempo) in un ostacolo insuperabile allo stesso sforzo di nominare la rivoluzione e di ripensarla: è a causa di una tale assurda identificazione della rivoluzione comunista con l'Urss che anche fra noi comunisti "rivoluzione" è diventata una parola impronunciabile e un concetto impensabile.
Proprio per questo è allora urgente liberare la nostra concezione teorico-pratica di rivoluzione dall'identificazione con la rivoluzione d'Ottobre, e proprio i compagni più legati all'idea di rivoluzione dovrebbero impegnarsi in prima persona in questo urgentissimo sforzo di elaborazione creativa (che abbiamo, timidamente, altrove incominciato), invece di attardarsi nella guardia del bidone vuoto che contiene mescolate tutte le ortodossie e tutte le eresie del leninismo.
Se faremo questo torneremo forse a capire che, in ultima analisi, è proprio l'essere portatori di una proposta di rivoluzione ciò che rappresenta la forza dei comunisti fra le masse (forse l'unica forza nostra, ma formidabile). E ci tornerà forse in mente che, ormai un po' di anni or sono, ci impegnammo esattamente a far questo quando decidemmo di voler rifondare il comunismo. Chissà che il prossimo Congresso non trovi un po' di tempo per discutere come fare oggi la rivoluzione comunista.