Impastato & Badalamenti
Storie italiane tra mafia e «giustizia»
di Saverio Lodato
Parla Giovanni, fratello di Peppino Impastato, condannato a pagare cinquemila euro all'avvocato del boss Gaetano Badalamenti: «La mia prima reazione a caldo è stata quella di considerarmi la vittima di una grande beffa. Pensavamo di avere già pagato tutto quello che c'era da pagare. E non solo in termini di soldi. Mi riferisco a una battaglia di civiltà che per ventisei anni abbiamo condotto a Cinisi rivolgendoci a tutta l'Italia. E - mi creda - non si è mai trattato di una passeggiata o di una marcia trionfale affinché si affermasse una volta e per tutte la verità su quanto era accaduto. Perché dico: abbiamo già pagato? Proprio perché abbiamo conosciuto l'isolamento in una vicenda che solo in parte era una vicenda e una tragedia familiare». Lo incontro, insieme alla madre, a Cinisi, in Corso Umberto 220. Una casa aperta a tutti: la stessa in cui visse Peppino.
Tracce sottili. Oggi racconteremo due storie italiane in una. La Storia numero uno si chiama «Impastato». La storia numero due si chiama «Badalamenti». E, in un certo senso, si è detto tutto. Ma vi chiederete: perché proprio ora? Sì, insomma, perché tornare sua una pagina criminale di Sicilia, ora che il vecchio boss Tano Badalamenti è passato a miglior vita? E non è forse scritto sui portali dei cimiteri: «Noi fummo come voi, voi sarete come noi?».
Verrebbe da dire: rispettate almeno la morte, ora che il tempo sta iniziando la sua opera e cancella con giudizio tutto quello che è bene cancellare, affinché non rimangano tracce troppo scabrose. Eppure viene difficile dare retta al monito cimiteriale, ora che milioni di italiani, grazie al bellissimo film i Cento Passi di Marco Tullio Giordana - e attraverso la recitazione allucinata e vera di Luigi Lo Cascio, Tony Sperandeo, Gigi Burruano, Paolo Briguglia, Ninni Bruschetta e Lucia Sardo - , hanno saputo finalmente cosa accadde la notte dell'8 maggio 1978, a Cinisi. E sapete perché? Perché il diavolo, come si dice, si nasconde nei dettagli.
E di dettagli, in questi ultimi giorni, se n'é registrato qualcuno di troppo. Dettagli macroscopici, indigeribili per tutti coloro che hanno imparato a conoscere la triste (e bella) storia di Peppino Impastato, ucciso dai mafiosi, in quanto giornalista coraggioso, senza peli sulla lingua, tipico rappresentante di una Sicilia Altra, rispetto a quella dei Governatori che Governano con sulle spalle fardelli giudiziari per mafia, o associazioni esterne, o violazioni del segreto che dir si voglia. Una Sicilia Altra che è sempre esistita.
Dettaglio numero uno: Giovanni Impastato, fratello di Peppino, il 31 marzo 2003, viene condannato da un Tribunale della Repubblica Italiana al pagamento di cinquemila euro per diffamazione nei confronti dell'avvocato Paolo Gullo, difensore del boss mafioso Gaetano Badalamenti, deceduto a ottant'anni negli States, il 29 aprile 2004. Sentenza definitiva. E ai primi di settembre di quest'anno, viene dunque pignorata la pizzeria degli Impastato a Cinisi, motivo per cui è stato inevitabile sborsare i cinquemila euro delle vergogna.
La querelle. era sorta a seguito di una trasmissione televisiva in cui Giovanni aveva definito l'equazione «Peppino Impastatato - terrorista - suicida» la «tesi di un imbecille». Da qui la querela dell'avvocato Paolo Gullo che evidentemente quella tesi riconosceva come sua, o quantomeno aveva fatto propria.
Dettaglio numero due: qualche giorno dopo. La morte di Badalamenti ha chiuso per sempre (si applica la formula del «non doversi procedere per la morte del reo») il processo sulla mafiosità dell'imputato che durava dal 1985. Conclusione: gli eredi di Tano Seduto - come lo chiamava ironicamente Peppino dai microfoni della sua radio «Aut Aut», incendiaria per i tempi -, rientreranno in possesso dei beni che erano finiti sotto sequestro per iniziativa di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. La Procura di Palermo ha cercato di tranquillizzare l'opinione pubblica. Ma la strada è in salita.
Allo specchio. Due storie parallele, speculari, intercambiabili. Come fossero scritte una sull'altra. Come i fumetti di Walt Disney, i cui bozzetti, apparentemente tutti uguali, appena mossi, davano il via alla storia. Storia, questa, con i medesimi protagonisti, sempre schierati o di qua o di là. Cocciutamente, caparbiamente, strenuamente, nel bene e nel male. Respiro di sollievo per alcuni, umiliazione per la parte avversa. E così via, all'infinito. Per ventisei lunghissimi anni.
Storia tutt'altro che fumettistica, questa. Storia, o storie, con le medesime date chiave. Se la racconti da una delle due prospettive, hai raccontato l'altra. Ma vedremo, alla fine, che questa vicenda assume in maniera assai curiosa i tratti di una metafora perfetta sulla lotta alla mafia nel nostro Paese. Metafora su una lotta alla mafia sbilenca, strabica, spaventosamente contraddittoria, intrisa di sangue e ipocrisia, lacrime e carte da bollo, strazio delle vittime e ghigno beffardo dei carnefici, fatti atroci e profluvio di parole, memoria e dimenticanza, ragione strappata con le unghie e dissennatezza elevata a sistema.
Due cognomi - Impastato e Badalamenti - indissolubilmente legati da tante cose: la mafia e l'antimafia, certo. Ma anche lo Stato, le Leggi, le Istituzioni, le Procedure, il Diritto, i Codici, i Risarcimenti Danni, le Firme Autenticate, le Arringhe e le Requisitorie, Sentenze e Dispositivi, Prove e Prescrizioni, la Giustizia Italiana, insomma.
Ed è come se, dopo ventisei anni, i protagonisti delle due storie parallele si fossero improvvisamente scambiati le casacche. Come se il palcoscenico avesse compiuto una rotazione di centottanta gradi con tutti gli attori che ci stavano sopra. O come se la Dea Bendata, un po' alticcia, cominciasse a sproloquiare menando fendenti a casaccio. Andando avanti vedremo che non è assolutamente così. C'è un filo sottilissimo, ma tenace. C'è un rigore tremendo, in queste vicende. Una corda che suona, e suona sempre male.
L’ultimo treno. Qualche giorno fa, avevo avuto modo di ascoltare Giovanni Impastato (che non conoscevo) a Firenze, al Teatro del Sale, dove Fabio Picchi, il titolare del noto ristorante «Cibreo», aveva organizzato una serata con lui e Gian Carlo Caselli, in occasione del passaggio dal capoluogo toscano della carovana antimafia indetta da «Libera». Le cento persone presenti gli avevano tributato un'interminabile ovazione, proprio per questa sua antimafia mite, poco gridata, di parole scarne. Antimafia di fatti autentici, vissuti, pagati sulla pelle.
Giovanni Impastato è uomo mite, di poche parole. Insieme alla madre Felicia Bartolotta, ha animato, per ventisei anni, quello sparuto gruppo di amici di Peppino che non si rassegnarono alle tenebre di Stato che si profilarono sui cieli di Cinisi all'alba di quell'8 maggio 1978.
E appena un anno dopo, fu atto di coraggio non comune intitolare alla memoria di Peppino Impastato, il centro siciliano di documentazione diretto da Umberto Santino. Perché atto di coraggio? Perché i primi carabinieri intervenuti sul luogo del delitto sentenziarono, come tanti Maigret che andavano a fiuto, che Peppino aveva messo in atto un attentato terroristico alla linea ferrata Trapani-Palermo, prima di morire dilaniato suicida (?) con il suo stesso esplosivo. E verrebbe da dire: troppo zelo quello dei Maigret di casa nostra. Chè se Peppino Impastato era terrorista, non poteva essere, quella notte, terrorista e suicida insieme. Era un po’ troppo per il senso comune. Ma tant'è.
E proprio adesso che con la condanna di Badalamenti per l'omicidio del fratello (undici aprile 2002) la verità sembrava farsi strada, per Giovanni è arrivato il diavolo con il suo carico di dettagli perniciosi.
Beffa su beffa. Giovanni, sono andato a rileggermi le dichiarazioni in processo dell'avvocato Gullo. Definiva suo fratello «un terrorista», «un buono a nulla», «un pazzo», «un bestemmiatore». Non era tenero neanche con la commissione antimafia liquidata come «un clan di amici di Peppino». Forse, sarebbe bene che in certi processi, gli avvocati potessero essere arrestati in aula quando offendono la memoria dei morti e delle vittime. Non è d'accordo?
«Io le posso solo dire che tutte quelle offese l'avvocato Gullo le ha snocciolate in aula. Si renderà conto allora che se alla fine mi sono permesso di definire "imbecille" una tesi di quel genere, qualche piccola ragione forse l'avevo anche io».
Poi, ai primi di novembre, la doppia beffa: la notizia che sempre lo stesso avvocato ha chiesto il dissequestro dei beni del boss, con la motivazione - giuridicamente ineccepibile - che non si è mai giunti a una definitiva condanna per mafia del suo assistito. Ha avuto la sensazione che i due fatti fossero in qualche modo collegati?
«Come non pensarlo?»
È bene però ricordare, che la nostra giustizia, sia pure lentissima, una parolina su Badalamenti aveva avuto il tempo di dirla condannandolo in primo grado quale «mandante» dell'assassinio di suo fratello. E la pena era stata quella dell'ergastolo.
«Perché si arrivasse a questo punto, alla prima e unica sentenza della corte d'assise di Palermo, presieduta da Claudio Dall'Acqua, avevamo atteso quasi un quarto di secolo».
Don Tano. Lo dicevamo all'inizio: due cognomi paralleli, gli Impastato, i Badalamenti di Cinisi. Ma perché questa è metafora perfetta della lotta alla mafia nel nostro Paese? Ricordiamo solo qualche precedente. Sino alla veneranda età di 80 anni, Tano Seduto, negò sempre di aver fatto parte della mafia. Gli americani, che tanti limiti hanno, ma verso la mafia hanno dimostrato negli ultimi anni scarse inclinazioni, in carcere lo fecero restare sino alla fine. Era stato condannato grazie alle dichiarazioni di Tommaso Buscetta nel processo «Pizza Connection» istruito negli States contro le famiglie mafiose italo americane. In Italia, invece, Tano Seduto ha goduto ininterrottamente di simpatie e complicità spesso anche istituzionali. Giudizio troppo duro?
Ma come valutare allora il pellegrinaggio di investigatori e giornalisti che lo andavano a corteggiare nel carcere americano con la speranza che ritornasse in Italia a dire la sua? Erano gli anni in cui Badalamenti, che mafioso diceva di non essere mai stato, rilasciava interviste affermando che Giulio Andreotti con la mafia non aveva nulla a che vedere. Curioso che un signore estraneo a Cosa Nostra potesse però sapere chi ne faceva parte e chi no. Ma nessuno in Italia si pose mai la questione. Anzi. Era un gran titolare sui giornali, per definire Badalamenti un virtuale AntiBuscetta. Ma sin dal giorno del ritrovamento dei brandelli di Peppino Impastato lungo la linea ferrata Trapani-Palermo, il buon Badalamenti dimostrò di avere tanti santi in Paradiso.
I depistaggi. Erano i tanti Maigret che poi sarebbero stati definiti dalla commissione parlamentare antimafia autentici «depistatori». I Maigret che, di fronte a quanto era accaduto, come pronto accomodo andarono a perquisire la casa di Peppino e dei suoi compagni di Democrazia Proletaria, alla ricerca di tutto il «materiale ideologico» che ne provasse la sua adesione al terrorismo. Quello stesso giorno, a Roma, in via Caetani, era stato trovato il corpo di Aldo Moro. E mentre i riflettori erano accesi da tutt'altra parte, i Maigret di periferia ebbero tutto il tempo per manipolare, insabbiare, nascondere reperti che sarebbero stati fondamentali per ottenere la condanna di Badalamenti con un quarto di secolo d'anticipo. Concorda?
«Che Badalamenti avesse santi in paradiso lo pagammo sin dal primo giorno. Incontravamo un muro di resistenze. E non capivamo perché. Chiedevamo supplementi di indagine e ci chiudevano la porta in faccia. Si negava la pista mafiosa. Eppure, uno dopo l'altro, tutti quei magistrati che, nonostante tutto, cercavano di arrivare alla verità, venivano eliminati. Gaetano Costa, allora procuratore di Palermo, Rocco Chinnici che guidava l'ufficio istruzione, persino Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Insomma: lottavamo contro i mulini a vento. Io mi creavo un interlocutore di riferimento con il quale dialogare e al quale rappresentare tutte le nostre angosce e le nostre perplessità e quello, prima o poi, moriva per mano di mafia. È questa la storia di ventisei anni trascorsi a bussare alle porte della giustizia italiana».
Verità e memoria. Ora, come dicevamo all'inizio, è come se la Dea Bendata, un po' alticcia, stesse menando fendenti a casaccio. Ma così non è. C'è un’opinione pubblica che ormai ha capito tutto quello che c'era da capire. C'è un pezzo delle istituzioni che, purtroppo, resta fedele al cliché di un Badalamenti non mafioso. Con le conseguenze deleterie che abbiamo cercato di descrivervi. È l'Italia, eternamente in bilico tra verità e oblio, è l'Italia che Leonardo Sciascia definiva paese incapace di avere una sua verità.
Felicia Bartolotta oggi ha ottantotto anni. Lucidissima, è la memoria dell'intera famiglia, e dopo avere ascoltato in silenzio l'intero colloquio fra me e Giovanni, scuote la testa.
E si limita a dire, quasi a conclusione di queste due storie italiane in una: «Non sono stata sempre convinta che ce l'avremmo fatta. C'erano anzi momenti in cui prevaleva lo sconforto e la disperazione. Ma tutto mi sarei immaginata tranne che, una volta raggiunta la verità di una sentenza, questa potesse essere capovolta da provvedimenti che sembrano ignorare proprio quella sentenza e quelle conclusioni. Chiederò a Giordana, o a un altro regista che mi consiglia lui, di fare un film, magari quasi comico, per raccontare "La vita di Peppino Impastato. Parte Seconda". Insomma: in Italia non si finisce mai di imparare».
E di soffrire.
Mi ha fatto molto piacere questa mail
Caro Biraghi,
La ringrazio per la sollecita segnalazione le belle parole con le quali ha voluto accompagnarla. Cordiali saluti e buon lavoro.
Saverio Lodato
io il dvd de I Cento Passi l'ho regalato a dei miei amici a SF... giusto per diffondere le idee e la conoscenza... :-)