Un’operazione solo finanziaria
Sandro Orlando
“L’attuale strategia di mantenere separate Tim e Telecom Italia è positiva per diverse ragioni, mentre non è prevedibile alcun risultato positivo ad unire le due società”. “Probabilmente Telecom Italia unita a Tim dovrebbe affrontare delle limitazioni da parte delle autorità di regolamentazione del mercato”, e “questo impedirebbe alle due società di ottenere effetti positivi rivolgendosi ai clienti con un’offerta unica”. “Di contro io sono convinto dell’importanza di avere bilanci e azionariato separati”, “la competizione del mercato è più efficiente se fatta da due società” (5 novembre 2003). “Una fusione con Tim non creerebbe valore”. “Ritengo che Telecom e Tim possano continuare a collaborare in alcune aree dove c’è convergenza. Ma sempre più la concorrenza tra fisso e mobile sarà dura proprio per la maggiore convergenza delle tecnologie: credo sia cosa buona tenere Telecom e Tim separate” (25 marzo 2004).“Oltre a non essere conveniente dal punto di vista industriale, non ci sarebbe neppure una convenienza finanziaria, perché porterebbe alla diluizione del risultato per azione”. “Telecom e Tim continueranno a competere, prima lo facevano solo sulla voce ora si inseriscono anche i servizi a valore aggiunto della banda larga”. “Anche volendo, l’Authority non ci permetterebbe di unire le due società, visto il peso che hanno sul mercato” (6 maggio 2004).
Così ripeteva, fino a qualche tempo fa, il presidente della Gpi, della Camfin, della Pirelli & C., di Olimpia e di Telecom Italia, ovvero quella piramide societaria che sta a monte di Tim, e consente ad un singolo imprenditore di controllare uno dei più grandi operatori di telefonia mobile del continente – una gallina dalle uova d’oro capace di girare ogni anno ai suoi azionisti un monte dividendi superiore ai 2 miliardi – col minimo dei rischi. Ieri però è arrivato il contrordine. Il “dominus” che siede in cima alla lunga catena di comando cui fa capo la galassia Telecom, ha annunciato la fusione tante volte negata. Fornendo anche una spiegazione, a suo modo illuminante, del perché di questo improvviso ripensamento: a fare la differenza sono state due novità, arrivate dopo l’estate. E cioè le nuove tecnologie che permettono l’integrazione tra il fisso e il mobile; e il raggiungimento degli obiettivi sulla riduzione dell’indebitamento. Tradotto per i non addetti ai lavori, il primo punto si può rendere con “Bluephone”: ovvero il nuovo prototipo di telefonino multirete, capace di funzionare sia come cellulare che come “cordless” e di realizzare dunque la convergenza fisso-mobile, presentato a luglio da British Telecom, e attualmente in fase di sperimentazione in Inghilterra. Sono stati i produttori di apparecchi ad imporlo, le case principali, da Alcatel a Motorola, da Ericsson a Nokia e Samsung raggruppate in un consorzio internazionale.
Ma può bastare un mutamento tecnologico ad innescare un terremoto societario, mettendo in moto un’operazione delle dimensioni di una finanziaria, 20 miliardi di euro, che non solo non crea valore perché causa una diluizione del risultato del gruppo - come aveva più volte sottolineato lo stesso presidente Telecom in passato - ma riporta l’indebitamento consolidato netto a livelli da capogiro, fino ad oltre 44 miliardi, rispetto ai 30 di oggi? Evidentemente no, se è vero che anche Bt, che attualmente è considerata la stella polare del settore, dopo aver dismesso le attività di telefonia mobile ha fatto marcia indietro semplicemente grazie ad un’alleanza con Vodafone. La convergenza di può anche realizzare con l’affitto delle frequenze: non serve comprarsi un operatore. Il modello France Télécom, il gruppo che quest’anno ha ripreso possesso della controllata Orange, non è l’unico esistente.
Dovrà esserci allora un motivo più convicente, e andrà cercato nel secondo punto elencato ieri da Tronchetti Provera, e cioè la diminuzione dell’indebitamento Telecom, che è sceso da 33 a 30 miliardi nei primi nove mesi del 2004. Un miglioramento che ha consentito alla scatola che controlla a monte il gruppo, e cioè Olimpia, di rinegoziare all’inizio del mese scorso il 75% dei debiti finanziari. Con un ulteriore credito da 2,4 miliardi erogato da un pool di istituti guidato da Intesa e Unicredito, oltre che da Capitalia. Le stesse banche che si preparano a finanziare la nuova avventura di Tronchetti Provera, con un prestito da 12 miliardi. Le prime due hanno già pronto anche il paracadute per uscire: con un’opzione per vendere nel 2006 le quote detenute in Olimpia (il 16,8%) ad un prezzo al riparo da ogni minusvalenza (corrispondente al valore di carico dei titoli Telecom, che supera i 5 euro, contro i 2,9 della quotazione corrente). Da qui a quella data si tratterà di spremere il più possibile dalla pancia di Tim, che si aspetta un margine operativo lordo di 6,5 miliardi. Alla faccia di ogni logica industriale e di ogni criterio di corporate governance.