Chi ha paura di Giancarlo Caselli?
MARCO TRAVAGLIO
Per completare degnamente la campagna di intimidazione contro i giudici chiamati a giudicare Berlusconi e Dell’Utri, l’apposito Foglio di Giuliano Ferrara ha lanciato ieri un appello in prima pagina. Eccolo: «Per ragioni che discendono dall’evidenza dei fatti storici, noi sottoscritti virtuali riteniamo altamente sconsigliabile il conferimento dell’incarico di procuratore nazionale antimafia al dottor Giancarlo Caselli, procuratore generale di Torino e già procuratore capo della Repubblica di Palermo». Firmato: «Giulio Andreotti, assolto. Corrado Carnevale, assolto. Francesco Musotto, assolto. Bruno Contrada, assolto. Carmelo Canale, assolto. Giuseppe Prinzivalli, assolto. In questi processi l’accusa penale è stata portata dal dottor Caselli e sostituti».
Era difficile concentrare tante falsità in poche righe, ma Ferrara - da quel professionista della menzogna che è - ci è riuscito. L’«evidenza dei fatti storici» dice che Andreotti non è stato assolto: nella sentenza d’appello, resa definitiva lo scorso mese dalla Cassazione respingendo il ricorso dell’imputato, è scritto che Andreotti ha «commesso il reato di associazione per delinquere» con Cosa Nostra «concretamente ravvisabile a suo carico fino alla primavera del 1980», ma «estinto per prescrizione». Contrada, condannato in primo grado e assolto in appello, e tutt’ora imputato davanti alla Corte d’Appello dopo che lo scorso anno la Cassazione annullò la prima assoluzione facendola letteralmente a pezzi. Il giudice Prinzivalli non è stato processato a Palermo, ma a Caltanissetta, dunque l’accusa contro di lui non è mai stata portata né da Caselli né dai suoi sostituti. Sono stati assolti, invece, gli altri tre. Ma Canale non definitivamente: solo in primo grado, e secondo il comma 2 dell’articolo 530 del codice di Procedura Penale, che assorbe la vecchia formula dell’insufficienza di prove. Carnevale, assolto in primo grado e condannato in appello, ha ottenuto l’annullamento senza rinvio dalla Cassazione perché le gravi accuse che gli muovevano i suoi ex colleghi della Suprema Corte non potevano essere utilizzate in quanto - ha sostenuto la Cassazione stessa, con un nuovo principio giuridico - violavano il segreto della Camera di Consiglio. Musotto, assolto anche lui con il secondo comma, era accusato di avere ospitato diversi boss latitanti nella villa di famiglia a Natale di Pollina: con questa stessa accusa, è stato condannato definitivamente a quattro anni il fratello Cesare. I fatti, dunque, erano veri e provati, ma non è sufficientemente dimostrato che Francesco Musotto abbia riconosciuto quei boss che circolavano in casa sua, mentre lui stesso la frequentava. Chiunque abbia letto quelle sentenze, sa bene che i processi si basavano non su teoremi, ma su fatti gravissimi e inoppugnabili, che secondo la legge (obbligatorietà dell’azione penale) non solo potevano, ma dovevano essere portati davanti al giudice per essere valutati. Fatti riconosciuti quasi sempre come reali anche nelle sentenze di assoluzione.
Manca, naturalmente, nell’elenco del Foglio il nome di altri personaggi eccellenti processati e condannati nell’era Caselli: il poliziotto D’Antona (dieci anni definitivi), l’ex ministro dc Calogero Mannino (assolto in primo grado e condannato a 5 anni in appello), l’ex deputato dc Franz Gorgone (condanna definitiva).
Ma mancano, soprattutto, le centinaia di boss mafiosi condannati grazie alle indagini condotte dalla Procura di Caselli fra il 1993 e il ‘99: gli ergastoli di quella stagione sono oggi complessivamente 650. Mancano soprattutto i nomi dei mandanti e degli esecutori materiali delle stragi del 1992 (Capaci e Via D’Amelio) e del 1993 (Milano, Firenze, Roma), smascherati e arrestati dopo anni di latitanza dalla Procura di Palermo negli anni di Caselli e poi condannati a Caltanissetta e a Firenze, grazie alle confessioni di numerosi pentiti, a cominciare da quelle - davanti a Caselli - di Santino Di Matteo. Per citare soltanto i boss più noti catturati in quella stagione: Riina, Bagarella, Ganci, Graviano, Brusca, Aglieri, Vitale, Madonia. Mancano, ancora, i beni per diecimila miliardi di lire sequestrati a Cosa Nostra in quei sette anni, che corrispondono all’importo della recente riduzione fiscale del governo Berlusconi.
Volendo poi andare indietro nel tempo, si potrebbero elencare le centinaia di brigatisti rossi che Caselli fece arrestare, processare e condannare quando combatteva il terrorismo a Torino e quando, per la sinistra estremista, era una «toga nera», un «servo del generale Dalla Chiesa», un «fascista».
Ma il padre nobile di questo appello, il primo firmatario virtuale, dovrebbe essere un altro imputato eccellente. Il più eccellente, forse, di tutti. Uno che non ha atteso la candidatura di Caselli alla Procura nazionale antimafia per mettere in guardia il governo e il mondo politico tutto. Uno che il 25 maggio 1994, agli albori del primo governo Berlusconi, ebbe a dichiarare solennemente alla stampa: «C’è uno strumento politico, ed è il partito comunista. Ci sono i Caselli, i Violante, poi questo Arlacchi che scrive libri. Ecco, secondo me, il nuovo governo si deve guardare dagli attacchi di questi comunisti». Quell’uomo, un vero precursore, si chiama Totò Riina. È altamente consigliabile, in calce all’appello inserire anche il suo nome. Ad honorem.