Storia di Teresa, statunitense che diventerà medico grazie a Cuba
Stefano Menna
Teresa Glover è americana, newyorkese del Bronx. Di sangue misto (per metà afroamericana delle Barbados, per metà indiana Cherokee), Teresa ha 27 anni e studia medicina. La sua è una famiglia abbastanza modesta: la mamma è un’insegnante, il padre un dipendente delle metropolitane. Teresa ha un sogno, quello di diventare dottore. Ma le mancano i soldi per continuare a frequentare un’università costosa come quella di New York. È così che, arrivata al terzo anno e di fronte al passaggio dal laboratorio alla pratica clinica, decide di andare a Cuba. Alla Scuola Latino Americana di Medicina (Elam) dell’Avana, una scuola di formazione in medicina finanziata dal governo cubano e aperta non solo ai giovani provenienti dai paesi in via di sviluppo, ma anche ai poveri dei paesi più ricchi. E Teresa è una di questi. Una degli 88 americani che attualmente studia alla Elam e della quale la rivista scientifica americana New England Journal of Medicine ha raccolto la storia. «Volevo diventare dottore a tutti i costi, ma non sapevo come fare. Senza molti soldi in tasca è dura frequentare l’università. È per questo che quando ho saputo dell’opportunità alla Elam non ho avuto esitazioni», spiega Teresa.
Obiettivo della scuola dell’Avana è offrire una formazione di alto livello, che consenta ai giovani dottori, una volta ottenuta la specializzazione e terminati gli studi, di rientrare nei paesi di origine per esercitare la professione. Sono infatti 27 i Paesi e 60 i gruppi etnici rappresentati tra gli 8 mila studenti che frequentano aule e corsie dell’Elam. L’idea di aprire le porte del centro anche agli statunitensi è venuta direttamente a Fidel Castro nel 2000, in occasione di una visita a Cuba dei rappresentanti delle minoranze etniche americane. Di fronte alla denuncia della cronica mancanza di strutture e personale sanitario adeguato nei quartieri più poveri, Castro ha immediatamente aperto le porte dell’Elam anche a loro.
Nel giro di un anno il governo dell’Avana ha messo a disposizione 500 posti per tutti quegli studenti che si impegnavano a esercitare la professione nelle aree e nei quartieri più poveri degli Stati Uniti. L’iniziativa ha riscosso un grande successo soprattutto nell’ambito dei ghetti e delle minoranze: neri, ispanici e indiani che rappresentano circa un quarto dell’intera popolazione americana. Si tratta di un’ampia fetta della società che difficilmente riesce a ottenere nel proprio Paese l’accesso alle università più prestigiose e alle scuole di formazione più avanzate: uno squilibrio sociale che inevitabilmente si traduce in un sistema sanitario sbilanciato e che procede a due - se non più - velocità.
Degli 88 studenti che al momento frequentano la scuola cubana, l’85% appartiene a una minoranza etnica e il 73% è di sesso femminile. La selezione viene gestita negli uffici di New York dell’organizzazione Interreligious Foundation for Community Organization (Ifco). I candidati devono essere diplomati, in condizioni economiche precarie e hanno l’obbligo di rientrare nella comunità di origine per poi esercitare la professione di medico.
Certo, non tutto è così semplice come può sembrare. I limiti che l’amministrazione Bush ha imposto ai viaggi a Cuba, per esempio, sono stati fin dall’inizio una spina nel fianco per lo sviluppo del progetto. Finché il governo di Castro garantiva la copertura dei costi di iscrizione e di vitto e alloggio non c’erano mai stati grossi problemi. Ma da quando quest’estate Bush ha limitato il tempo di permanenza dei cittadini americani in viaggio nell’isola caraibica la situazione è peggiorata, tanto da suscitare una vibrante campagna di protesta che ha poi costretto il governo Usa a tornare sui suoi passi.
Studenti come Teresa qui possono finalmente realizzare una seria carriera accademica e professionale, a dispetto delle ristrettezze finanziarie. Per il New England Journal of Medicine, «non è chiaro il motivo per cui un paese povero come Cuba dovrebbe incentivare la formazione di giovani dottori per la ricca America, spendendo una fetta consistente del bilancio del proprio sistema sanitario». Evidentemente si sono persi le vecchie teorie sulla solidarietà internazionalista.