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«Ma io sono fiero del mio sognare, di questo eterno mio incespicare» (Francesco Guccini)
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Alberto Biraghi
Il ponte di San Luis Rey
Nasce come tragedia (di Thorton Wilder, premio Pulitzer del 1927), ma il geniale Paolo Poli (che nonostante gli anni si muove in scena come un giovanotto) l'ha trasformata in commedia brillante in due tempi. Un lavoro leggero, arguto, dissacrante, all'altezza delle cose migliori dell'attore fiorentino. Il fatto si svolge nel diciottesimo secolo. Il crollo improvviso di un ponte in Perù causa la morte di cinque persone e una suora - Madre Pilar - si domanda se il Signore abbia voluto punire dei malvagi o chiamare a sé degli innocenti. Il racconto di vizi e virtù delle cinque vittime è la scusa per far rivivere la società dell'epoca.
Due ore scarse di scene veloci, balletti da
carillon e testi graffianti (
«i figli sono mostri creati dalle frustrazioni degli adulti» e
«se la merda fosse oro i poveri non avrebbero il buco del culo»), incorniciati dalle splendide scenografie di Emanuele Luzzati (mi sono fatto violenza per non rubare la locandina), coronati dal consueto bis di filastrocche allusive con cui tradizionalmente il grande Poli saluta il pubblico. Da non perdere, nonostante l'aria irrespirabile e i sedili stretti e scomodi del
teatro Carcano (PS il sito del carcano è uno di quei cosi osceni in flash).
16.01.05 00:27 - sezione
teatro