Oggi l’America ricorda Martin Luther King
Siegmund Ginzberg
L'America si ferma per l’anniversario della nascita di Martin Luther King. Lo celebrano anche George W. Bush e Donald Rumsfeld. È entrato a far parte dei miti fondatori degli Stati Uniti, la sua battaglia per i diritti civili, la pace, l'uguaglianza e le ragioni dei più deboli è stata un po' come la Resistenza da noi, ne deve tener conto anche chi magari ne farebbe volentieri a meno.
Curioso: dalle nostre parti, in questo stessi giorni, una grande azienda di telecomunicazioni ha affidato il suo messaggio pubblicitario ad una figura che ha più di un punto di somiglianza con quella di King: il mahatma Gandhi. L'immagine torna a ripetizione in tv, a Roma campeggia sulla scalinata di Piazza di Spagna. Anche lui simbolo della non violenza, della pace della tolleranza e dell'amore per il prossimo. «Se solo fosse riuscito a comunicare in questo modo...», suona il messaggio.
Martin Luther King e Mohandas Gandhi hanno in effetti parecchio in comune. Possono essere citati come antitesi a tutto quello che di questo tempi torna a farci inorridire. Hanno in comune di essere stati uomo di religione l'uno, profondamente religioso l'altro, ma di aver fatto l'esatto contrario che voler imporre la propria religione agli altri. Sono diventati il simbolo delle non violenza. Ma né l'uno né l'altro erano quello che oggi si direbbe «moderati». Nella caparbietà con cui chiamavano a mobilitarsi contro l'ingiustizia, nella violenza con cui denunciavano i soprusi, erano semmai estremisti. Si potrebbe perfino dire: fanatici. L'uno e l'altro finirono in prigione, organizzarono marce o digiuni che sfociarono talvolta in violenza. Per i britannici, che sentivano come missione portare la «civiltà» in India, il Mahatma era quasi un terrorista. King non voleva rovesciare era lo «Stato» in America, anzi si richiamava costantemente ai suoi valori fondatori. Ma fu trattato da molti come «sovversivo».
Né l'uno né l'altro erano «politici», nel senso «professionale» del termine. King ad un certo punto aveva pensato di candidarsi alla Casa Bianca, poi aveva rinunciato; comunque non sarebbe mai stato eletto. Gandhi non si intendeva molto di governo. L'uno e l'altro furono ammazzati da fanatici. Razionalmente la loro battaglia sembrava utopistica, troppo avanti coi tempi, portatrice di pericolosi turbamenti. Forse lo è ancora. Ma riuscirono a lasciare un solco duraturo. Anche perché avevano trovato «politici» pronti a capire che i loro non erano solo «sogni». In America furono Kennedy e Johnson. In India coloro che ne hanno fatto la più popolosa democrazia sulla faccia del pianeta (e ora anche un gigante economico). Non era scontato.
Nel 1964, quattro anni prima che fosse assassinato, al reverendo King venne dato il premio Nobel. «Lo accetto con fede fondata nell'America e fede audace nel futuro dell'umanità. Rifiuto di accettare la disperazione come risposta finale alle ambiguità della storia.. Rifiuto di accettare l'idea che l'uomo sia solo come schiuma nel fiume della vita, incapace di influire sugli avvenimenti attorno a lui. Rifiuto di accettare la visione per cui l'umanità sarebbe tragicamente destinata alla notte senza stelle del razzismo e della guerra, e che non possa mai realizzarsi l'alba della pace e della fratellanza. Rifiuto di accettare la nozione cinica che nazione dopo nazione debbano precipitarsi nella spirale militaristica della distruzione. Ho l'audacia di credere che tutti i popoli possano avere tre pasti al giorno per il loro corpo, istruzione e cultura per la loro mente, e dignità , eguaglianza e libertà per il loro spirito. Insomma I still believe that we shall overcome», disse nel discorso di accettazione. A qualcuno sembrò delirio.