La metamorfosi ora è compiuta
Roberto Cotroneo
Loro, nel senso dei Ds, questa volta hanno messo le storie, le idee, la tradizione. Hanno fatto un congresso dove, come ha detto Piero Fassino nelle conclusioni, «finalmente non si soffre». Sarebbe il caso cominciassero a mettere in comunicazione le idee anche i giornali e i giornalisti: che sono il tramite, sono quelli che raccontano al resto del mondo quello che è accaduto là dentro. E allora le idee per una volta, se non fossero minimaliste, se non fossero retroscena, caso, dettaglio e particolare sarebbe meglio. Nell’ordine si leggerà della commozione di Piero Fassino, e del sorriso di D’Alema, un sorriso uscito dopo qualche pudore, del carisma di Veltroni, che ha detto delle cose bellissime, e del rigore di Antonio Bassolino, della lucidità di Epifani. Si troveranno inquadrature non viste, e si farà a gara al riferimento curioso, alla sintassi più disinvolta. Meglio Rino Gaetano, o Caterina Caselli che ha tormentato come un ronzio il sottofondo di questo congresso? Alla fine sembrerà di aver fatto il proprio mestiere in questo modo. In cerca di variopinte farfalle e di piste mai battute. E invece mentre la comunicazione politica cambia faccia, e completamente, il mondo dei media per una volta rimane fermo, un po’ a guardare, allibito, stupefatto, e indeciso sul da farsi.
Non era mai accaduto. I media si inventavano i leader, giocavano con i retroscena, narravano storie che entravano negli annali. E coniavano metafore su metafore. Ma adesso quei giornali sembrano vecchi. E sono ancora tutti là a provarci. Taccuino in mano e idea brillante da copiarsi uno con l’altro; e se Veltroni dice una frase più incisiva, subito a scrivere. E a pensare come collocarla. Se Fassino si commuove fino al pianto, ma non si riusciva a vedere, perché i maxi-schermi sgranano tutto, e le cose si fanno confuse, si commuoverà con una colonna sonora tutta da commentare, con una cravatta più allentata di quella di Pesaro, forse.
Ieri è andata così. Qualunque cosa si scriverà, con lo stile del giornalismo politico dell’ultimo decennio, non servirà a niente. Nei giorni scorsi, sul “Foglio” di Giuliano Ferrara si inneggiava ai resocontisti da congresso, i resocontisti dell’ “Unità” del tempo che fu. Neanche quelli servirebbero, perché non è di parole che qui si tratta, ma è di empatia. Nel senso autentico del termine. Per i filosofi l’empatia serviva a chiarire l’esperienza estetica. Poi nell’uso comune adoperiamo empatia come sinonimo di emozione. Ed è sbagliato.
L’empatia non è uno stato d’animo, l’empatia è un canale di comunicazione. Un canale che ti permette di capire, utilizzando non soltanto i termini della ragione, ma anche creando una sorta di fusione emotiva. C’era empatia in questo ultimo giorno di congresso? C’era una sorta di fusione emotiva che portava a intendere ancora meglio il progetto Ds del futuro? Sicuramente c’era. E ha senso usare l’Einfülung, l’empatia appunto, nella categoria della politica? Probabilmente ha un senso. Questo congresso Ds è stato molto di più che un buon congresso: unitario, molto solidale, con un’idea nuova di opposizione, e soprattutto con una nuova idea per questo Paese.
Oggi Veltroni ha scelto i suoi tempi per spiegarci alcune cose, che si spera non siano sfuggite. Ha cominciato lieve, con un tono leggero, poi ha detto sostanzialmente qualcosa di dirompente, ha chiuso un’epoca storica. Lo ha fatto incrociando l’episodio più violento e terribile degli anni Settanta italiani: il rogo di Primavalle. Ha detto che questa Italia di oggi è meglio, è più giusta dell’Italia di allora. Ha posto l’accento su una contraddizione e su una verità, una verità che si spera possa diventare presto un punto di partenza per le riflessioni del futuro, soprattutto in seno alla sinistra. Ovvero: se quel ’68, se quegli anni Settanta, non siano stati una vera e propria regressione reazionaria e violenta, anziché un decennio liberatorio e fondamentale. Certo, davanti alla platea di delegati, questo Veltroni non l’ha detto esplicitamente. Non era ancora il momento. Ma se quei delegati li guardavi (e andavano guardati) capivi che l’età era dalla loro parte. Capivi che i giovani, i trentenni, erano davvero più di quanto ci si potesse aspettare. Capivi che i dirigenti dei Ds sono ormai di un’altra generazione. Ma soprattutto capivi che la classe dirigente di questo partito è perfettamente attrezzata a gestire questa rivoluzione di tipo generazionale.
Veltroni ha detto molte cose, con sicurezza, quasi non leggeva. Aveva pochissimi foglietti. Non ha detto le cose che i luoghi comuni gli attribuiscono ogni volta. Kennedy, i sogni, I Care, Martin Luther King, che nel tempo sono stati trasformati quasi in luoghi comuni che on merita. Ha detto cose solide, precise. Ha chiesto al pubblico non emozioni, ma empatia. Non un modo per piacere alla platea emozionandola, ma la capacità di farsi capire attraverso categorie che sono assieme estetiche ed emozionali: che è un modo moderno e inedito di comunicare la politica. E dopo di lui lo ha fatto Piero Fassino, che aveva ragione nelle sue conclusioni finali: Berlusconi è un pubblicitario, non un comunicatore.
Ieri c’era un’aria diversa in quel benedetto Palalottomatica. Era l’aria che si aspettava da molto tempo. Era un’aria di modernità. Li vedevi un po’ impacciati sotto gli applausi, un po’ fuori tempo nel battere il ritmo della musica, e capivi che fuori da lì c’è il vecchio. La metamorfosi, in qualche modo si è compiuta. Fuori da lì c’è il centro destra, figlio di quel paese di cui parlava Veltroni, il paese di quelli che dicono bene e male, di quelli che seminano contrapposizioni ad arte, di quelli che lanciano anatemi. Il paese ideologico, vecchio e persino un po’ stalinista: lo stalinismo del culto della personalità, del sospetto e dell’ossessione del potere.
Ma è difficile mettere in cronaca, diciamo così, una sensazione diffusa, che correva per il terzo congresso Ds: che la nottata, anche quella delle divisioni interne, è passata. E che la sinistra oggi è culturalmente distante mille miglia dal centro destra. Che la sinistra è Europa, progresso, investimenti, ricerca, rispetto, dialettica, e il centro destra è demagogia da paese latino-americano e qualunquismo cinico. Il fantasma di Berlusconi è tornato nelle conclusioni di Fassino, è stato sfiorato da Veltroni, è stato liquidato da Violante con misurata durezza, e in questo modo si è ridotto a poca cosa in questo congresso. L’hardware non serve a niente se non hai il software, ripete Fassino; che tradotto vuol dire: c’è poco da fare, puoi possedere l’informazione e le televisioni, ma se non hai niente da dire che ci fai?
Non ci fai niente. Soprattutto oggi che a sinistra certi ingranaggi si sono messi in moto, e tutto sembra voglia finalmente comporsi. E adesso arriva il lavoro più difficile, quello che ti impedisce di confondere. Anche su questo Veltroni è stato chiarissimo: riformismo radicale. La cosa non piacerà affatto a settori, per quanto marginali, un po’ neo-cerchiobbottisti di certa sinistra intellettuale, a cui piace occhieggiare con l’opposizione in virtù di un bon ton politico molto finto British. Pazienza. Il congresso di questi giorni è stato chiaro. Esiste un riformismo radicale, che è un’idea, un progetto, persino un’etica e che non ha più bisogno di strillare a vuoto. Ma non si concede ambiguità con l’altro schieramento di nessun tipo. Questo riformismo radicale è stata la certezza di questo congresso. E quando Veltroni ha detto che verrà un giorno in cui avremo un unico partito democratico della sinistra sapeva che in buona parte, se certe nevrosi emotive, certe rendite di posizione, non si mettessero in mezzo, sarebbe possibile già oggi. «And indeed there will be time», scriveva T.S.Eliot: e di sicuro ci sarà tempo. Per ora rimane l’ultima immagine dei delegati che cantano con Rino Gaetano: “Ma il cielo è sempre più blu”. Ed era una bella immagine.
Michele Placido candidato con Veltroni
A guidare la lista che porta il nome del sindaco sarà l'ematologo Franco Mandelli. Tra gli altri candidati, al Municipio Roma XIII di Ostia spicca il nome del noto giornalista Antonello De Pierro, direttore di Italymedia.it
Il noto attore Michele Placido, protagonista di tante pellicole di successo e da qualche tempo direttore artistico del teatro di Tor Bella monaca figurerà tra i candidati della "Lista Civica Roma per Veltroni". E' stato lo stesso Veltroni, amatissimo primo cittadino della capitale, a tirar fuori dal cilindro dei candidati il nome del celebre personaggio dello spettacolo, reduce dai recenti successi al David di Donatello. A guidare la lista sarà invece il famoso ematologo Franco Mandelli, che sindaco ha voluto fortemente tra le file della sua lista. Tra i consiglieri uscenti favoriti Carlo Fayer e Fabrizio Panecaldo, che ha già fatto la sua prima uscita di manifesti pubblicitari letteralmente inondando l'intera città, ma rigorosamente nel rispetto dell'ambiente, usufruendo esclusivamente degli spazi consentiti. E' costata cara invece la scelta di candidarsi al Senato con i Socialisti di Bobo Craxi a Giuseppe Mannino Presidente del Consiglio Comunale, che comunque sarà inserito nel listone dell'Ulivo. Uno dei favoriti per la vittoria finale è invece Antonio Flamini, http://www.antonioflamini.it Presidente del S.I.L.B. e impegnato in prima persona in tema di sicurezza stradale. Il nome noto di Antonello De Pierro, http://antonellodepierro.italymedia.it uno dei giornalisti più popolari della capitale e, dati alla mano, indiscusso protagonista dell'informazione telematica e radiofonica, campeggia nella lista dei candidati del Municipio Roma XIII di Ostia Lido. Nel suo curriculum professionale sono note le tante battaglie in favore dei diritti umani, della giustizia sociale, dei portatori di handicap, e proprio nel territorio di Ostia le lotte contro il degrado della pineta, nei confronti dell'indifferente amministrazione di centrodestra guidata dal presidente uscente di Forza Italia Davide Bordoni. Lo stesso Bordoni, come più volte ribadito da De Pierro nelle sue trasmissioni radiofoniche, non ha mai risposto positivamente agli inviti di intervista rivoltigli, su argomenti di grande interesse sociale per il territorio di cui era il più alto rappresentante isituzionale.