La Musica di Auschwitz
Diario di un viaggio con gli studenti
dei Modena City Ramblers
Fra due minuti, alla vostra destra, vedrete la stazione di Oswiecim!» L’altoparlante della carrozza bar attrae la nostra attenzione per una prima scarica emozionale con quella che è stata la più grande vergogna del genere umano dell'era moderna. Auschwitz, in tedesco, è lì a pochi km da questa stazioncina dove il cielo e la neve si fondono in un unico freddo colore. Sarà la suggestione, sarà il gelo, ma i brividi ci pervadono il corpo. «Ci siamo!» Venti ore di tradotta, da Brescia ad Auschwitz, per ricordare, o meglio, per far conoscere a un migliaio di studenti provenienti da varie provincie, la storia di questo campo di sterminio.
Il nostro viaggio in realtà è iniziato da Fossoli di Carpi, dove c'era il più grande campo di concentramento italiano. Primo Levi partì da lì.
Il convoglio arriva a buio inoltrato a Cracovia, città base per questa spedizione. Non siamo soli, altri tre treni della memoria sono già arrivati da un paio di giorni da Torino e dalla Toscana. Ci attende una bella e calda zuppa di cipolle. È la prima volta che nessuno si lamenta. Rispetto, verso chi sessant'anni fa fece lo stesso viaggio verso la morte. Anche se questo può sembrare un po’ retorico e ipocrita, oggi è giusto così.
Sveglia all'alba, colazione veloce e pullman destinazione Auschwitz I. La popolazione di Oswiecim non gradisce molto questo tipo di turismo. Vorrebbe dimenticare, più che ricordare. Forse perché in fondo in fondo l'antisemitismo, da queste parti, non è mai scomparso del tutto. E nemmeno i russi sono ben visti, dai polacchi, nonostante siano stati loro a liberare la Polonia, a costo di grandi sacrifici; insomma, si fa veramente fatica a capire le ragioni di questa voglia di dimenticare. La guida ci racconta una breve storia del campo e poi infila nel mangianastri del pullman una cassetta con la registrazione di una conferenza in cui Liliana Segre, una sopravvissuta di Auschwitz, racconta la sua storia. Fuori c'è il gelo, nevica a tratti. Anche dentro di noi, nonostante il riscaldamento a manetta, il gelo. Nessuno lacrima. Sarebbe troppo retorico anche questo? Eppure nessuno fiata per quasi un'ora. Mentre le parole che sentiamo sono pesanti come macigni. Metodo migliore per farci avvicinare ad Auschwitz non avrebbe potuto trovarlo.
Il parcheggio è pieno di pullman e di gruppi che avanzano verso il cancello con la scritta «Arbeit macht frei». Passarci sotto è uno strappo al cuore. Il lavoro non ha mai reso libero nessuno, qui dentro. Grottesca, infamante, umiliante scritta. Ti fa chiedere anche se il lavoro abbia mai reso libero qualcuno. Le piramidi che tutti aspirano ad andare a vedere, prima o poi, hanno forse reso liberi chi le ha tirate su? Boh. È un vortice continuo di pensieri. Meglio pensare di nuovo a quei disgraziati che loro magrado hanno reso famoso questo luogo di morte e fantasmi. Se qualcuno crede nell'al di là, non può non sperare che Himmler, Hoss, Hitler e fino all'ultimo Kapò, possano soffrire in eterno, all'inferno, anche solo un decimo di quello che hanno sofferto un milione e centomila fra bambini, donne, anziani in questo maledetto posto.
Il freddo ti taglia il fiato, il resto lo fanno questi mattoni rossi che prima che arrivassero i nazisti erano caserme per i soldati polacchi. La cosa che colpisce di più è la lucidità con cui il disegno criminale era messo in atto. Niente veniva sprecato, nemmeno le ceneri, che venivano vendute alle industrie agrarie che le usavano come concime.
La nostra guida del campo è un omone sui settant'anni, parla un buon italiano ma con tutti gli accenti sfalsati e questo rende ancora più enfatizzato il suo racconto. Dice spesso,«gli hitleriani», con una voce dura che sputa disprezzo, e quando dice «sterminio» sembra che siano passati pochi mesi e non sessant'anni. Forse Auschwitz andrebbe visitato in solitudine per sentirne il silenzi, cercare di catturarne la cupezza ma anche in tanti come siamo noi, ha i suoi lati positivi. Essere in un gruppo che si accalca in questi corridoi grigi e freddi ti butta addosso tutta l'oppressione metafisica e ti fa sentire un po' bestia come forse si sentivano i deportati. I ragazzi delle superiori, i veri protagonisti di questo viaggio della memoria sono i più attenti e coinvolti che abbiamo mai visto. Segno che non tutti i giovani, come qualcuno vorrebbe farci credere, sono agnostici o menefreghisti, Anzi, durante tutto il viaggio in treno era un continuo provare pezzi teatrali, leggere libri sulla Shoah. Merito anche di stoici insegnanti che si oppongono con forza al revisionismo nei programmi scolastici.
La visita è spossante, il pallidissimo sole non scalda, il vento ti taglia quei pochi centimetri di pelle scoperti. I fili spinati sono un'immagine fortissima e alla lunga diventano insopportabili. Vorresti strapparli e vorresti fare saltare tutto con la dinamite. Vorresti vedere campi di papaveri rossi o girasoli al posto di questi edifici rossi e di queste baracche. Non si riesce a non sentirsi un po’ in colpa anche «solo per essere nati», rubando una frase a Liliana Segre.
Ripassiamo sotto quella scritta e usciamo dal campo. Il pullman n°3 ci aspetta nel piazzale. La nostra visita finisce lì, il sound check ci aspetta, Gli altri gruppi proseguono per Auschwitz II- Birkenau dove le baracche di legno sostituiscono quelle in mattone e dove arrivavano i treni carichi di deportati. Noi in serata suoneremo al palasport di Cracovia per tutti i partecipanti al viaggio. I Modena City Ramblers torneranno a fare i pagliacci di sempre, gli studenti torneranno a fare casino e ad odiare i propri insegnanti i quali torneranno a parlare della riforma Moratti e così via. Vince la vita. Ma qualcosa, dentro ognuno di noi, è cambiato per sempre.