Il Giudice e il suo Popolo
di Tania Groppi
Quale concezione della giustizia sorregge l’attuale ministro della Giustizia e, per suo tramite, la maggioranza di governo? La risposta non sembra difficile: leggi ad personam, riduzione dei termini di prescrizione dei reati, immunità delle più alte cariche dello Stato, norme per ostacolare le rogatorie e il mandato d’arresto europeo, una riforma dell’ordinamento giudiziario che riduce l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. Molteplici sono gli atti normativi attraverso i quali la maggioranza ha espresso la sua volontà. Di avere una magistratura asservita al potere politico.
Le dichiarazioni con le quali il ministro Castelli ha commentato la decisione del tribunale di Milano che ha disposto la scarcerazione di alcuni presunti terroristi islamici sembrano aggiungere qualcosa di nuovo. Apparentemente.
«Amministrare la giustizia in nome del popolo vuol dire emettere sentenze secondo un senso della giustizia che fa parte della sfera morale dell’uomo, secondo quei diritti naturali che vengono prima di quelli fissati nel codice», ha detto il ministro. E ancora: «Abbiamo sentenze che sono in contrasto con i principi fondamentali della morale naturale». E ha aggiunto: «La giustizia dovrebbe essere amministrata in nome del popolo. Cioè secondo il sentimento del popolo». «Il problema è che c’è uno scollamento tra il corpo della magistratura e il popolo».
Fa una certa impressione udire il ministro della giustizia appellarsi ai «diritti naturali» e sostenere che «vengono prima di quelli fissati nel codice». E non solo perché si tratta di un ministro della Giustizia. Che del diritto «fissato nel codice», lo jus positum, il «diritto posto» dai soggetti a ciò autorizzati in un ordinamento (e per questo detto «positivo») è, in quanto “guardasigilli”, la vestale. Ma principalmente perché si tratta di quel ministro della Giustizia. Che, incessantemente, ha tentato di ridurre il potere giudiziario a bouche de la loi, a mero applicatore delle norme giuridiche volute dal legislatore. Che ha cercato di eliminare ogni spazio interpretativo dei giudici, al punto da chiedere al parlamento di introdurre tra i comportamenti suscettibili di far scattare la responsabilità disciplinare dei magistrati anche «l’attività di interpretazione di norme di diritto che palesemente e inequivocabilmente sia contro la lettera e la volontà della legge o abbia contenuto creativo».
Con le recenti dichiarazioni, il ministro pare prendere coscienza, bruscamente, di quanto da tempo gli studiosi più avvertiti, ovunque nel mondo, hanno rilevato. Ovvero che, nonostante i tentativi compiuti, a partire dalla rivoluzione francese, di assoggettare la magistratura al diritto, continua ad esistere un ethos del giudice irriducibile al motto ita lex.
Il positivismo giuridico ottocentesco ha tentato ricondurre il potere giudiziario entro la sfera della volontà del legislatore, proponendo come modello il giudice-burocrate. In forza di questa dottrina del diritto il giudice è abilitato, anzi è obbligato a nascondere se stesso e la sua visione della giustizia dietro alla legge da altri voluta e stabilita. Come ha scritto il presidente emerito della Corte costituzionale, Gustavo Zagrebelsky, «se fosse possibile ridurre completamente il diritto alla legge, la coscienza del giudice potrebbe effettivamente annullarsi e trincerarsi dietro a quella del legislatore. Ma la plurimillenaria storia del diritto dimostra che questa riduzione non è possibile. L’ordine del legislatore non è mai riuscito a spegnere completamente il lume, o il lucignolo della giustizia che illumina i passi del giudice facendogli apparire la legge in una luce o in un’altra. Per questo, il tentativo che, sempre e di nuovo, i legislatori di ogni tempo hanno fatto, fanno e faranno nei confronti dei propri giudici, di annullare la loro coscienza e trasformarli in burocrati contabili delle leggi, è destinato al fallimento».
Il lume che, secondo il ministro, dovrebbe guidare i giudici nell'interpretazione della legge è il diritto naturale. Si introduce così la spinosa questione del giusnaturalismo. Ovvero la dottrina secondo la quale esiste un sistema di regole di condotta (ius naturale) che ha validità di per sé ed è anteriore e superiore a quello costituito dalle norme poste dallo Stato, e che, in caso di contrasto con quest’ultimo, deve prevalere. Fin dal suo sorgere, nel secolo XVI e XVII, il moderno giusnaturalismo ha sollevato una questione cruciale: come individuare una nozione condivisa di diritto naturale? E irrisolta: al diritto naturale si sono potuti appellare tanto coloro che invocano una legge divina, rivelata agli uomini, sia coloro che si richiamano a una legge dettata dalla ragione, che l’uomo ritrova autonomamente dentro di sé.
Si tratta pertanto di una espressione pericolosamente equivoca. Al punto che, quando, nel corso del XX secolo, si è riconosciuta la impossibilità (e la pericolosità) di ricondurre il diritto alla sola legge positiva - ad esempio di fronte a crimini, come quelli nazisti, i cui esecutori hanno cercato di giustificare sulla base dell’obbedienza alle leggi vigenti - si è voluto ad ogni costo evitare il richiamo al “puro” diritto naturale. Si è scelto allora di positivizzare, nelle costituzioni rigide e nei trattati internazionali sui diritti umani, un insieme di principi condivisi, posti ad un livello superiore a quello della legge, che guidino gli interpreti e gettino luce sulle norme “positive”, fino al punto da costituirne condizione di validità.
Ma, a ben vedere, simili preoccupazioni sono assolutamente estranee al ministro della giustizia. Per il quale il diritto naturale coincide invece con il «sentimento del popolo».
Questa indicazione, per qualche verso, pare richiamare una nota concezione antipositivista del diritto, di matrice anglosassone. Per Ronald Dworkin e per la sua dottrina dei principi, il buon giurista non è il conoscitore di tutte le leggi e di tutti i precedenti, e basta. È invece colui che vivifica questa conoscenza con la partecipazione, come giurista, alla vita della cultura nella società in cui opera. I principi che egli maneggia sono il ponte di collegamento per un continuo andirivieni: producono cultura e sono prodotti dalla cultura.
Peraltro, per il giurista europeo, tutto ciò evoca cupe assonanze. Come non pensare allo spirito del popolo del romanticismo giuridico tedesco o all’interpretazione scientifico-spirituale del diritto che risale a Rudolf Smend? E come non temere così, per esempio, la politicizzazione del diritto, la caduta nell’organicismo giuridico e la deviazione a strumento di dominio? In una parola: come non temere la fine di una dimensione propriamente giuridica della vita collettiva che faccia da argine al potere politico e ai poteri sociali?
Nell’attuale contesto italiano, poi, è difficile sfuggire all’impressione che sotto al «sentimento del popolo» si celi il volere delle piazze e delle maggioranze politiche. Ovvero una concezione della democrazia secondo la quale tutti i poteri, giudiziario compreso, dovrebbero adeguarsi agli “umori” che salgono dalla società. Meglio se costantemente tenuti sotto osservazione tramite tecniche demoscopiche. In altri termini, una “sondocrazia”, nella quale qualsiasi separazione dei poteri è sconosciuta.
La giustizia amministrata secondo il sentimento del popolo altro non è che la giustizia plebiscitaria di Pilato. Ma tale visione è incompatibile con lo Stato costituzionale. In cui, non dimentichiamo, ci si assoggetta al pactum subiectionis - promettendo di ubbidire alle decisioni del governo legittimo, cioè al potere della maggioranza - soltanto perché quest’ultima agisce secondo le regole e nel rispetto dei principi contenuti nel pactum societatis. Di quei principi costituzionali - il moderno diritto naturale - attraverso i quali ci si accorda sulle condizioni dello stare insieme nel rispetto reciproco e senza spargimento di sangue. Principi sui quali “non si vota”. E che hanno un senso soltanto se garantiti da giudici indipendenti dal sentimento del(la maggioranza del) popolo.
"dura lex, sed lex". forse al ministrucolo castelli dovrebbero ricordare (ma secondo me lo sa e fa finta di niente) che i diritti neturali valgono nello stato di natura e che nello società la delega della sovranità è affidata dai cittadini nelle mani della legge. se anche da parte di chi giudica viene meno questo meccanismo, si rompe il patto con cui i cittadini delegano la propria sovranità (il proprio diritto naturale a tutte le cose) ad un principio che dovrebbe teoricamente essere impersonale e al di sopra dell'uomo: la legge. l'interpretazione "creativa" della legge- anche di un giudice non assoggettato a giochi politici, di un giudice indipendente- è un concetto che mi fa venire i brividi!!!
la Groppi, in definitiva, lo considera un processo inarrestabile, irreversibile e vitale per una giusta interpretazione del diritto, e in virtù di questo chiede totale indipendenza (sacrosanta) per la magistratura, per evitare che le decisioni dei giudici siano quelle dei politici o addirittura quelle del sentire popolare.
sicuramente la sola legge positiva non può da sola costituire tutto il diritto, e sicuramente c'è bisogno che si mettano dei paletti, che si illumini il cammino dei giuristi con l'adozione di "costituzioni rigide" e di "trattati internazionali sui diritti dell'uomo"...ma c'è anche il bisogno, oggi ancor di più, che la legge venga rispettata e applicata alla lettera, lasciando l'interpretazione creativa a casi estremi come quello dei crimini nazisti.
e che al contempo non si faccia carta straccia della costituzione...aihmè...maltrattata e spesso ignorata, oggi, in italia.