Foibe, le bugie e le amnesie dell’Italia di destra
Bruno Gravagnuolo
«I comandi di grandi unità possono provvedere ad internare a titolo preventivo, categorie di individui della città e della campagna, e intere popolazioni di villaggi e zone rurali... famiglie da cui siano o diventino mancanti, senza chiaro motivo, maschi validi di età compresa tra i 16 e i 60 anni. Saranno internati anche gli abitanti di case prossime al punto in cui vengono attuati sabotaggi».
Il lettore ci perdoni la lunga citazione. E si prepari a perdonarcene tra breve una seconda, meno lunga ma non meno eloquente. Di che si tratta? Sono le istruzioni del comando italiano in Slovenia e Dalmazia nel marzo 1942, diramate dal generale Gastone Gambara. Nelle quali si intravede una realtà storica di cui in Italia non si parla se non di sfuggita, in tempo di giusta memoria delle foibe. Una realtà di stragi, repressione e gulag per i popoli slavi occupati dall’Italia dopo il giugno 1940. E che si concretò con la costruzione di 202 campi di concentramento per sloveni e croati, tra Italia e zone occupate. Dove i prigionieri morivano come mosche per fame, malattie, maltrattamenti. Uno di questi campi era situato ad Arbe nell’isola di Rab nell’Adriatico (7 mila morti). Un isola, proprio come Goli Otok, il gulag jugoslavo di Tito. Ma sulla quale nessun vispo memorialista controcorrente ha scritto alcunché. E sulla quale gli italiani non sanno un bel nulla, a differenza delle foibe. Ed ora ecco la seconda citazione: «Villaggi e case incendiate, innumerevoli famiglie disperse, gente uccisa senza motivo all’impazzata, torture e bastonature violente durante gli intrerrogatori, arresti di massa, campi pieni di internati tenuti in modo disumano (chi parla ha visto con i suoi occhi) hanno seminato odio e favorito la propaganda partigiana...». Sono parole datate 20 agosto 1943 e indirizzate al prefetto di Trieste dal vescovo filogovernativo Antonio Santin, installatosi in una diocesi nella quale il clero slavo era stato già discriminato, cacciato dalle autorità fasciste fin dagli anni trenta. Parole inequivoche, con le quali il prelato ammoniva a non confondere il nemico con la totalità della popolazione slava. Parole anche esse spia di una realtà storica di cui gli italiani di questo dopoguerra non hanno mai avuto il benché minimo sentore, a differenza delle foibe.
Le traiamo dal libro ben documentato di Gianni Oliva Profughi (Rizzoli) del quale già parlammo tempo fa. E non certo per giustificare le successiva pulizia etnico-politica dei comunisti jugoslavi ai danni delle genti italiane nella Venezia Giulia. Ma solo per fare una constatazione. Eccola. Se è vero che nei libri di testo per le scuole medie i riferimenti alle foibe - tranne qualche eccezione - sono ancora scarni o esili, è altresì vero che nulli, totalmente nulli sono nei medesimi libri i riferimenti a crimini italiani non inferiori o addirittura superiori a quelli perpetrati dai titini con le foibe. Ad esempio i crimini coloniali di massa in Libia e Tripolitania, e quelli in Etiopia. Fino a quelli commessi nell’amministrazione nazionalistica e fascista dell’Istria dopo il 1919. Dalla snazionalizzazione sistematica di una regione a maggioranza slava, costellata di espulsioni contadine e fucilazioni contro gli irredentisti sloveni e croati. Alla repressione simil-nazista sul territorio croato e dalmata - Montenegro incluso - che colpì miglia e migliaia di innocenti. A proposito di Montenegro e di repressione antiguerriglia, ecco quanto telegrafava Mussolini ai comandi e agli ufficiali italiani: «Non comportatevi come padri di famiglia, come se foste in Italia...». Anche su questo, nei libri di testo per le scuole, silenzio totale. Eppure sarebbe utile ricordare di che pasta era fatta la «brava Italia» fuori dello stivale. Anche per capire gli antecedenti di colpe inescusabili - che ricadono innanzitutto sul progetto etno-politico dei comunisti jugoslavi - ma alle quali l’Italia dette il suo pesante contributo. E senza dimenticare il regno croato annesso all’Italia e affidato al criminale Ante Pavelic, che massacrò serbi e croati.
Resta il problema: come è potuta avvenire la persecuzione e l’espulsione degli italiani dalmati e giuliani? Una parte della risposta sta senz’altro nella follia nazionalista italiana che caricò di risentimento le élite croate e slovene. Il tutto confluì nella strategia radicale di Tito, che immaginò una Jugoslavia all’inizio rivoluzionaria e antemurale espansiva del comunismo, in chiave anti-imperialista. Quella Jugoslavia militarmente vincente travolse non solo i non comunisti, ma anche il ruolo nazionale del Pci di Togliatti, in odore di «parlamentarismo», che non aveva accettato l’annessione delle città giuliane a maggioranza italiana, e tantomeno di Trieste, a Belgrado (e cfr. anche Raul Pupo, Il lungo addio, Rizzoli). Il Pci fu subalterno e impotente, e mandò «pionieri» da Monfalcone a Fiume, anche se combattè gli scissionisti filoslavi al suo interno. Ed ebbe il torto di tacere a lungo, benché tra il 1948 e il 1956 abbia poi denunciato il «fascista» Tito, per motivi filosovietici ma non solo. Infine la memoria nazionale. Non è vero che nel dopoguerra non si parlò di foibe ed esuli. Ci furono film d’autore (Bannard, Zampa, Costa, Nerino Bianchi etc.), paginate sui rotocalchi, denunce sui quotidiani, cinegiornali, manifestazioni di piazza. A scuola e in famiglia non si parlava d’altro. Solo dopo il 1954 calò il volume. Perché Tito piaceva sempre più, a destra come a sinistra.
1. Gli scissionisti non erano i fiolojugoslavi ma quelli filoitaliani, capeggiati dall'agente imboscato in messico di stalin, il vidali.
2. Il PCI a Trieste dopo il 1948 fomentò una campagna razzista antislava
3. I morti nelle cosiddette foibe (forse 1.000 a fronte di centinaia di migliaia di iugoslavi) erano in gran parte collaborazionisti, spie, comunque giudicati da un tribunale alleato (C. Cernigoi, Operazione foibe a Trieste tra storia e mito)
4. L'Italia nel dopoguerra ha fomentato, propagandato l'esodo dall'istria (S. Volk, Esuli a Trieste. Bonifica nazionale e rafforzamento dell'italianità sul confine orientale, 2004 - Udine)
vidali e' sempre stato organico alla dirigenza staliniana: e non era imboscato in messico (per assassinare in messico la sua ex, tina modotti, si servi' di qualcun altro) ma attivissimo a fucilare anarchici italiani in spagna.