Malcom X, il leader dei diritti umani
Giancesare Flesca
Cercando oggi in quel grande coacervo di idee, di speranze, di odio, di passione, di pace e di violenza che fu Malcolm X, l’aspetto più attuale appare quello dei suoi rapporti con l’Islam. A questa religione egli si convertì giovanissimo, mentre scontava una condanna in carcere per i reati minori che ogni cat in the street, ogni giovane e nero gatto randagio, commette per sopravvivere o semplicemente per fare del male all’uomo bianco. A quell’epoca aveva sì e no vent’anni, e nei venti che seguirono superò il carcere e la scimmia sulla spalla dell’eroina, diventando così il grande leader politico che tutti conosciamo per la professione della sua fede islamica, e per vivere spesso il suo privato in maniera conforme al Corano. Basta pensare che in 39 anni regalò al suo dio sei figli. Ma il suo primo pellegrinaggio alla Mecca, gesto doveroso per ogni buon musulmano, lo compì nel 1964, quando ormai era vicino ai quaranta, un anno prima che lo ammazzassero. Allora visitò parecchi paesi arabi e africani, conobbe i leader della generazione uscita dal colonialismo, chiese a tutti di sottoporre all’Onu la condizione in cui vivevano i neri americani. «Comprenderete bene», scrisse durante il viaggio ad un gruppo di compagni Black Nationalist come lui, «che quello che sto cercando di fare è molto pericoloso perché rappresenta una diretta minaccia a tutto il sistema internazionale dello sfruttamento razzista. È una minaccia alla discriminazione in tutte le sue forme su scala internazionale. Per questo, se muoio o se sarò assassinato prima di ritornare negli Stati Uniti, siate certi che quel che ho messo in moto non sarà fermato... Il nostro problema è stato “internazionalizzato”». Notate la facilità con cui parla della sua possibile uccisione. Sua nonna venne stuprata da un bianco, per cui egli nacque di pelle chiara e biondino , Red Detroit lo chiamava allora la gente. Suo padre fu ucciso quando lui aveva sei anni. Sua madre finì in manicomio. Lui venne mandato ad un brefotrofio che aveva già il sapore della galera. Due dei suoi fratelli moriranno di morte violenta Così, il presagio di morte di quella lettera era per lui qualcosa di «normale».
Tornato dal pellegrinaggio alla Mecca e dai suoi incontri con leader islamici, Malcolm era cambiato, e di molto. La sua voce non si alzava ancora per predicare violenza contro i bianchi, «figli del demonio». Sembrava uomo del dialogo e della dialettica. L’adesione all’Islam non aveva per Malcolm X nulla di astratto. Per questo bisognava mettere a frutto subito quel che si era raccolto. Solo col silenzio gli oppressori possono vincere. Il silenzio riflette l’intolleranza e il terrore per l’opposto, la soppressione del dubbio e della critica, la prevalenza assoluta del dominio e il privilegio del diritto di non sapere. La parola è invece un rito per rinsaldare l’interscambiabilità.
Lo accusarono di voler vendere, grazie alla sua poderosa oratoria, l’Islam all’America. E invece lui non voleva vendere l’Islam al suo popolo, ma un’immagine di eguaglianza razziale, un termine di paragone con l’ideologia della servitù e della sottomissione su cui a suo dire era basata l’America. Una ragione in più per tenere in piedi l’Organizzazione per l’unità afroamericana, da lui fondata poco tempo prima. Immaginiamoci se oggi un qualsiasi movimento politico, bianco o afroamericano parlasse dell’Islam in questi termini a un’udienza enorme come era quella di El-Haij Malik El-Shabbazz (questo il nome che aveva scelto da musulmano). Da sempre il cristianesimo occidentale convive negli Stati Uniti con l’Islam, lasciandone la rappresentanza agli emarginati o a personaggi pittoreschi come Mohammed Alì. Queste vite parallele sarebbero continuate per chissà quanto se l’11 settembre non avesse portato gli americani ad accorgersi che anche con quella realtà bisognava misurarsi politicamente all’interno del Grande Paese. Sarebbe assai interessante vedere come Malcolm X avrebbe vissuto la crociata anti-musulmana del governo Bush, come si sarebbe schierato nella teoria dei «due mondi».
«I musulmani avevano fatto di Malcolm X un uomo di fede - scriveva Leo Holt in un saggio a lui dedicato - il partito socialista trozkista lo ha presentato come un socialista e ognuno può appoggiare la sua tesi a elementi concreti. Come tutti i grandi uomini Malcolm fu uno specchio prismatico che continuò ad evolversi come una spirale durante tutta la vita». E di questo il primo ad essere consapevole era proprio Malcolm. «I mutamenti sono così repentini - disse nel 1964 - che se non ci si muove coi tempi rischia di trovarci con in mano l’ombrello quando c’è il sole, o sotto la pioggia mentre l’ombrello è rimasto a casa. La politica e i programmi mutano coi tempi, ma gli obiettivi di fondo sono immutabili…». Tornato dal suo viaggio in Africa e nel Medio-Oriente, Malcolm X aveva certamente cambiato i suoi programmi. Non teorizzava più la separatezza fra bianchi e neri, che considerava frutto di dogmatismo. «Adesso so che è più intelligente dire che si spara a uno per quello che ci fa piuttosto che per il fatto che è bianco». Si creano insomma le premesse per un nuovo militante nero, con obiettivi violenti sì, ma nel quadro di una strategia che non è azzardato chiamare riformista e che cerca l’appoggio dei bianchi non razzisti. I dialoghi astratti, i prologhi in cielo non riguardano i dannati della terra. È la premessa del movimento che verrà definito Black Power.
In quel fatidico anno che ne precedette la morte, Malcom aveva per così dire alzato il livello dello scontro. Mentre alla Casa Bianca di John F. Kennedy imperversavano le teorie e i teorici dei «diritti civili», egli aveva chiarito con grande lucidità che la lotta nel movimento nero doveva essere per i «diritti umani». I diritti civili, diceva in breve, sono qualcosa che ci tiene dentro la giurisdizione degli Stati Uniti e che impedisce a chiunque di intervenire dall’estero per aiutare la nostra causa. I diritti umani, invece, appartengono all’umanità e da tutta l’umanità possono essere difesi all’interno dei propri paesi o del nostro. È un ricollegarsi ideale a tutti i dannati della terra che lo esponeva più di quanto lo fosse stato nei suoi primi quarant’anni di vita. Lo esponeva alla condanna dei bianchi che stavano per imbarcarsi in una guerra, quella del Vietnam, dove i diritti umani dei negri d’America come quelli dei vietnamiti sarebbero stati violentemente conculcati.
E tuttavia lo esponeva ancora di più di fronte ai suoi confratelli neri, che dalla battaglia per i diritti civili, dalla loro condizione di minoranza oppressa traevano legittimità, prestigio e quattrini. Non a caso la fucilata che stronca la sua vita il 21 febbraio del ’65 ad Harlem è quasi certamente opera di un boss musulmano tradizionalista, forse di Louis Farrakhan, forse del fondatore di «Nazione islamica» Elijah Muhammad. Il regicidio che avrebbe dovuto farlo tacere per sempre si proiettò invece sul futuro, fece crescere un nuovo movimento, quello delle Pantere nere, che sconvolse i ghetti delle metropoli e seppe allearsi con la forza antagonista degli studenti bianchi. Anche per questi ultimi, Malcolm X era un grande leader politico americano e non soltanto un negro rivoltoso. L’uomo che aveva girato riformatori e carceri, ghetti ospitali e compagni difficili proclamandosi sempre «americano». E a tutti gridava: «Io vi parlo come vittima del sistema americano: vedo l’America con gli occhi della vittima e non vedo nessun sogno americano. Quello che vedo è l’incubo americano».
Dopo averlo vissuto sulla propria pelle, dopo averne pagato i prezzi di tasca propria, quell’incubo è diventato un monumento perenne che tutta la società americana ha dovuto innalzare al «rosso di Detroit» e alle sue parole, anche a quelle che parlavano solo di odio.
Uno sciamano elettrico
Wu Ming 1
La prima volta che vidi Hajj Malik El Shabazz, alias Malcolm X, non era lui. Lo interpretava un attore, Al Freeman Jr., svariati anni prima di Denzel Washington e Mario Van Peebles. Era una puntata di Radici (seconda serie). Negli anni Settanta, l’evento televisivo per antonomasia, insieme a Sandokan, lo sceneggiato (così li chiamavamo allora) che più colpì le menti della mia generazione. Alzi la mano chi non ha avuto un compagno di scuola o di oratorio soprannominato «Kunta Kinte» o «Gallo George». Avrò avuto dieci anni, non sapevo niente di Malcolm né di Alex Haley (curatore della sua autobiografia e autore di Roots). Quella puntata non l’ho più rivista, ma ricordo le sequenze una per una. Fu Malcolm a farsi strada tra i miei neuroni. Quando un attore - qualunque attore - lo interpreta, è come se Malcolm lo possedesse. Persino la parodia si carica di epos. In una sequenza del (brutto) film di Mel Brooks Robin Hood, un uomo in calzamaglia (1993), David Chapelle imita Denzel Washington che fa Malcolm. È l’unica sequenza che resta incisa nella memoria. Così, la prima volta che vidi Malcolm, non era lui... però era lui, crepitante d’elettricità.
Eccolo, il cliché, uno dei tanti: Malcolm è «elettrico». È «magnetico». Ha «carisma». «Buca lo schermo». È molto più sciamanico di qualunque rock-star per cui sprecammo l’aggettivo. La sua voce, l’oratoria che fa perdere l’equilibrio (o lo fa riacquistare), il linguaggio del corpo, l’immagine, la presenza... Tutto contribuisce a farlo rimanere nel mondo anche da morto, necessario come un piccolo dio domestico, un Lare, l’antenato che resta ad abitare in un angolo della casa.
In Malcolm, tutto lavora a ghermire l’energia del mondo, trasformarla, distribuirla intorno. Comunica con l’uditorio in modo tanto diretto da scavalcare le barriere del tempo. Son passati più di quarant’anni, eppure quelle registrazioni gracchianti ti afferrano per le spalle e ti scuotono. Quelle parabole e storielle piene di animali, quelle domande retoriche, quei passaggi a «chiamata e risposta»...
Anche l’icona di Malcolm è vivida, vibra, scotta le palle degli occhi. Le sue foto continuano a dirti mille cose, non stanno mai zitte, il sorriso non smette di detonare dalle pagine e dagli schermi. I filmati ti costringono ad alzarti dalla sedia, senti la scossa nei dischi vertebrali.
21 febbraio 1965, Audubon Ballroom di Harlem. Una faida tra neri fomentata dall’Fbi stronca la vita del «nostro splendido principe nero», come lo chiamerà Ossie Davis nella sua orazione funebre. Malcolm è stato ucciso, eppure, nel 2005, ancora si fatica a pensarlo morto, tanto che la sua tomba non è meta di pellegrinaggio, al contrario di quella di Martin Luther King. Non viene neppure in mente, che Malcolm abbia una tomba, tanto sembra ancora in mezzo a noi, anzi, sempre più in mezzo a noi.
«La miglior cosa che l’uomo bianco abbia mai fatto per me, è stata farmi apparire come un mostro in tutto il mondo. Perché io posso andare da qualunque parte nel continente africano e i nostri fratelli africani sanno da che parte sto». È ancora così: quando Malcolm arriva, sai già da che parte sta. In tutto il pianeta, in un’era di scontri tra grandi imperi guidati da piccoli uomini, la statura di Malcolm continua a crescere. Per tanto, troppo tempo, lo si è ritenuto un semplice «agitatore». Il suo linguaggio diretto e colorito, il linguaggio che tocca il cuore, ha ostacolato la sua rivalutazione come uno dei più importanti intellettuali del XX° secolo. Chi rilascia la patente di «pensatore»?
Lungi dall’essere poco sofisticato, Malcolm è un leader culturale che parla agli umani a venire. Quello che dice non sarà mai «datato». E nemmeno come lo dice. I discorsi di Malcolm sono capolavori di composizione - «composizione spontanea», semi-improvvisazione su un canovaccio. Ogni suo discorso è una storia compiuta di affermazione, auto-disciplina e stile di fronte al nemico. Eri nel fango e ne sei uscito, tutti possono uscirne. La lotta per la memoria è riconquista della dignità. George Washington scambiò un suo schiavo con un barile di melassa, ma tuo nonno non era un barile di melassa. Tuo nonno era Nat Turner. Tuo nonno era Toussaint L'Ouverture. Tuo nonno era il «negro dei campi», pensava alla fuga e a uccidere il padrone. Tuo nonno è quello che non piega la schiena.
E ancora: tu non sei americano. Ho detto: Tu non sei americano. Sei seduto alla tavola degli americani, ma il tuo piatto è vuoto. Non puoi essere un commensale, se non ti permettono di mangiare. Malcolm è oltre l’America, è la prospettiva globale, contro l’autocentrismo yankee. Estende a tutta la diaspora nera il termine «afro-americano», e anticipa il discorso sull’afroatlantismo. Viaggia per le rivoluzioni coloniali armato di cinepresa, ricolloca la propria anima nel Sud del mondo.
Chiudo con un’ultima sciabolata di Malcolm al nodo gordiano del razzismo, rovesciamento del punto di vista che ci parla del nostro presente. «Sono stanco di tutti questi studi sui neri d’America e il “problema nero”. È tempo che l’America faccia uno studio approfondito su cosa non va nei bianchi!». Lui pensa ai segregazionisti, al Klan, a J. Edgar Hoover. A noi vengono in mente i seminari sulla Bibbia organizzati da Bush alla Casa Bianca, i discorsi apocalittici, i deliri dei neo-cons, l’offensiva creazionista contro Darwin... Sì, può darsi che Malcolm abbia ragione: dev’esserci un «problema bianco», su questo pianeta. Condi Rice? Condi Rice è bianca, strano che non ve ne siate accorti.
Malcolm è insieme a noi, oggi più di ieri. Mio nonno era Spartaco. Mio nonno era alla Comune di Parigi.