«Morti e rovine, ho visto l’orrore di Falluja»
Maurizio Chierici
I terroristi che uccidono chi passa per strada, chi va a comprare il pane o in ufficio o a scuola, solo per precipitare l'Iraq nel caos dell'ingovernabilità, aprendo la guerra civile che l'occupazione americana deve avere in qualche modo previsto, suscitano ogni giorno non solo angoscia, soprattutto rabbia. Tra buchi e misteri, nella conquista irachena resta una voragine: Falluja, da mesi sotto tiro. Il dottor Salam Ismael ha 28 anni, lavorava all'ospedale di Falluja, è scappato prima che il cerchio Usa stringesse per la seconda volta la sua città. Buona famiglia, amici di larga ospitalità: vola a Londra. Torna in gennaio con camion e pulmini pieni di aiuti: soldi raccolti in Inghilterra. 15 tonnellate di farina, otto si riso, medicine e 900 abiti e scarpe per bambini rimasti soli e accampati nelle quattro tendopoli a ridotto della città. Li distribuisce nei campi profughi e ottiene il permesso di portare qualcosa dentro Falluja. Ne esce sconvolto, eppure riesce a comprimere la sofferenza in parole non proprio compromettenti. Ma ecco che il visto per Londra improvvisamente gli viene negato, Inghilterra proibita. A questo punto il dottore apre il suo diario ad un giornalista del «Socialist Worker». Si fa fotografare, mostra lettere e i documenti raccolti nei campi profughi: racconto di un dolore insospettato.
L'odore, prima di tutto. Centinaia di corpi si sciolgono sotto le macerie, nei giardini, perfino lungo le strade. Corpi di uomini e bambini per metà sbranati da cani randagi. Un container rovesciato è pieno di cadaveri. «Non potrò mai cancellare i racconti ascoltati per due giorni. Mi perseguiteranno fino alla fine della vita». A Saqlawiya, campo profugo improvvisato alla periferia di Falluja, «abbiamo trovato una “vecchia” di 17 anni. “Mi chiamo Hudda Fawzi Salam Iassawi. Quando è cominciato l'assedio siamo rimasti intrappolati in cinque nella mia casa. Un vicino di 55 anni non è riuscito a tornare dai suoi: sparavamo. Aspettava chiacchierando con mio padre. Poi le voci dei marines si sono avvicinate. Il padre e l'ospite sono andati ad aprire la porta senza troppa paura. Non erano combattenti, solo padri di famiglia. M'ero appartata di corsa in cucina per mettere il velo: stavano per entrare degli uomini e sarebbe stato inopportuno mostrarmi a testa scoperta. Il velo mi ha salvato la vita. Gli americani hanno subito sparato su mio padre e l'ospite. Li ho visti cadere. Con un fratello di 13 anni sono rimasta rintanata dietro al frigorifero. La sorella maggiore non ha fatto a tempo. L'hanno picchiata, lei non sapeva come rispondere a domande che non capiva. E le hanno sparato. Se ne sono andati dopo aver distrutto i mobili con quei fucili mai visti e frugato le tasche del padre e dell'amico portando via di tutto».
Altri profughi del quartiere di Jollah raccontano la loro storia. Il 12 novembre, Eyad Naji Latif assieme a otto familiari escono con fagotti e valige; si mettono in fila, come le istruzioni imponevano. «Quando arrivano nella strada principale all'esterno della moschea sentono un grido. Ma non capiscono bene. Forse “alt”, forse “adesso”. Subito cominciano le raffiche. Alzano gli occhi. Appostati sui soldati dalla tuta americana. Il padre di Eyad cade: macchia rossa che gli inonda il petto. Anche la madre ha il cuore squarciato. Cadono anche due fratellini, mentre due donne si accasciano gridando di dolore: ferite a una gamba e alla mano. I cecchini finiscono la moglie di uno dei fratelli di Eyad. Il bambino di cinque anni che la teneva per mano si getta urlando sul suo corpo. Un secondo colpo lo fa tacere. Eyad resta immobile a terra. Dopo qualche, tempo tornata la calma, prova ad alzare il braccio. Una pallottola lo fa cadere. Agita l'altra mano che stringe la bandiera bianca. Colpita. Resta disteso nella alla strada, ore e ore fino a quando comincia l'oscurità. Assieme ad altri cinque sopravissuti, trascinando un piccolo di sei mesi, striscia verso una casa. Restano nascosti otto giorni, mangiando radici di sterpaglie.
Dopo tre giorni di racconti, il dottore e i soccorritori inglesi, decidono di rischiare: vogliono capire se Falluja è davvero l'inferno ascoltato. «Quando metto piede in città non riconosco niente. Abbiamo incontrato persone che vagavano fra le rovine come fantasmi frugando fra i resti della case per recuperare qualche oggetto della vita di prima. Una vecchia signora, occhi gonfi di lacrime, mi ha preso per un braccio per raccontarmi che aveva una casa ma una bomba di aereo l'aveva colpita. Soffitto crollato seppellendo il figlio di 18 anni: un trave gli tagliato le gambe. La signora era rimasta prigioniera fra 'sue' macerie, col figlio che urlava. I cecchini sparavano a chiunque sbucasse in strada dalle rovine, anche di notte. Ha provato a contenere l'emoraggia del ragazzo. Ne ha solo allungato l'agonia, quattro ore in più, ed era la sua disperazione. Ci spostavamo di casa in casa scoprendo famiglie morte nei loro letti, o uccise in soggiorno o in cucina. Tutti gli appartamenti con mobili fracassati. In certi posti c'erano dei combattenti: giacevano sul pavimento vestiti di nero, cartucciere attorno alle spalle, ma nella maggior parte delle abitazioni i corpi indossavano vestaglie, molte donne senza velo. Vuol dire che nella casa in quel momento non c'erano uomini, se non vecchi di famiglia: nessun estraneo. Nessuna arma, nessun bossolo. La raffica di chi si era presentato alla porta non aveva permesso la difesa di una sola parola. Ecco, siamo usciti da Falluja con l'angoscia di chi ha visto qualcosa che aveva solo letto di posti lontani in tempi lontani. Ed era successo proprio nella mia città. Nessuno ha contato i morti, e nessuno ha voglia di far sapere quanti sono. Le forze di occupazione stanno spianando le macerie con i buldozer per seppellire la vergogna». Il racconto del dottor Ismael lascia una sola speranza: che non sia vero. Ma se il racconto fosse vero, cosa dovrebbero fare associazioni umanitarie, governi e parlamenti di ogni paese civile?
bhè, adolfino non era un figlio di papà, non era un ex alcolizzato, non era texano, giocava prevalentemente in casa sua e soprattutto non incarnava la volontà delle forse del bene liberamente elette dal popolo sacro.... (humor nerissimo, come il mio umore oggi)
e no, eh!
mo mi incazzo! basta con questi paragoni!
a che serve citare levi dalla torre, israel e morasha se poi si dicono sempre queste banalita'?
Non mi sembra una banalità. Se questa e altre testimonianze sono vere, ne deriva che il governo degli Stati Uniti ha deciso a tavolino lo sterminio del popolo dell'Iraq per il proprio tornaconto. Sarebbero diversi tempi, luoghi, mezzi, background, proporzioni, mezzi di comunicazione. Ma il folle cinismo omicida di chi pianifica sarebbe il medesimo. Confesso che la faccia di Runsfeld mi mette i brividi.
Guarda che questi metodi gli statunitensi li utilizzarono anche in vietnam, li utilizzarono i sovietici in afghanistan, li utilizzarono gli iraqeni in kurdistan e pure gli italiani in libia.
Non mi pare di leggere nulla di nuovo, cambiano solo le tecnologie.
Per quanto mi riguarda ha pienamente ragione Berja. Basta con questo paragone: USA=nazismo.
Ma stiamo scherzando?
Aleph, leggi bene. Non è possibile generalizzare sempre. Non paragono la guerra in Iraq alla Shoah. Il commento mio è: in questo momento il governo degli Stati Uniti in Iraq si sta comportando in modo che io definisco con l'aggettivo "nazista". Eviterei le considerazioni di pancia e mi limiterei a osservare i fatti. Il disinteresse assoluto per i diritti dei singoli inermi, il cinismo assoluto, la strage compiuta senza ombra di senso di colpa (che sottende un evidente disprezzo razzista), il genocidio: tutto questo per me è moderno nazismo. Il giudizio non è dato sugli Stati Uniti, ma sull'attuale governo. E non è dato sulle povere marionette che premono il grilletto, vittime di propaganda e condizionamento, ma su chi ha ridotto quei poveri esseri umani a pensare che di fare del bene all'umanità sparando 400 colpi al minuto su chiunque passi di lì. Queste giornate per me sono davvero agghiaccianti.
Alberto, in quello che scrivi ci vedo un atteggiamento ben preciso: il doppiopesismo. Perché nessuno si è abbarbicato sulla bandiera dell'ingiustizia quando le truppe scelte della legione francese in Costa d'Avorio hanno massacrato in un giorno circa 600 uomini? E parliamo di 6 mesi fa, non 60 anni fa...
Perché nessuno alza la voce con Chirac per dirgli quanto è ridicolo e stupido, nell'anno 2005, nel voler continuare a tenere truppe scelte nelle loro colonie africane?
Tu parli di genocidio del popolo iracheno, io trovo che sia strumentale e intellettualmente poco onesto affermare una cosa del genere.
Seguendo il tuo filo logico, il gas iracheno sui curdi e il napalm in Vietnam erano mezzi per compiere il disegno di un genocidio.
Per me questa è guerra: brutta, schifosa, lurida e zozza. Ma è guerra, non genocidio.
e uccidere civili innocenti in quale convenzione internazionale e' lecito?
e questa guerra che legittimita' ha?
e un alcolizzato ignorante ricco da fare schifo puo' fare a pezzi decine di migliaia di persone e avere il nostro plauso? o possiamo almeno vomitare?
Tonii, stai confondendo pere con mele.
Questo post non è sulla legittimità della guerra(che non c'è, beninteso!!), ma sul concetto di genocidio. Molto diverso.
ok, ma temo che per i civili uccisi sia piuttosto inutile sapere se sono vittime civili in un conflitto o membri di un genocidio.
tu mi dirai: ma sul piano del diritto sono cose diverse. sara'. ma la mia coscienza non riesce a farmi fare troppe distinzioni. lo schifo e' uguale.
Non è genocidio? Beh questa sicuramente l'avrete letta all'epoca, ma ricordare fa mai male:
http://www.haaretz.com/hasen/objects/pages/PrintArticleEn.jhtml?itemNo=421014
Se non è genocidio cos'è? Una nuova fattispecie?
E come si chiamerebbe?
Aleph, non accetto l'obbligo di essersi espressi su tutto per esprimersi su una cosa. Mi limito a considerare il caso in oggetto. A sentirmi frustrato nel vedere la decadenza civile degli Stati Uniti, preda di una cultura del business a tutti i costi che uccide qualunque sprazzo di umanità. Io sto parlando del Paese più potente del mondo, che da qualche tempo a questa parte sembra considerare gli altri, tutti, alla stregua di razza inferiore. Sono molto incazzato con il governo degli Stati Uniti e spero di non dover arrivare a portare come credenziale il mio 50% di famiglia in California per dirlo.
ecco, sor Bira', adesso andiamo d'accordo!
Ci metta anche lo strapotere del capitale, che se ne fotte dei costi umani e tutto inghiotte e macina.
e gli stati uniti di questo periodo sono il trionfo del capitale, quasi il capitale fatto stato.
E noi una piccola pallida penosa imitazione: in altre parole, siamo
l'unica cosa peggiore