Il Libano tra il sogno e l’incubo
di SIEGMUND GINZBERG
Un mare di persone a chiedere la verità sull’assassinio dell’ex premier Hariri, e che i siriani si tolgano immediatamente di mezzo, contro un altro mare di persona in piazza, mobilitate la settimana prima dal “Partito di Dio” filo-siriano per chiedere apparentemente il contrario. Gli ingredienti perché il Libano ripiombi nella guerra civile che 30 anni fa aveva lasciato una scia di 150.000 morti? Non è detto. Se la parola passa alla politica, anziché alle armi.
Il sogno è la democrazia, il popolo che decide. L’incubo la guerra civile. La realtà dipenderà dal prevalere della voglia di politica su quella di imporsi gli uni sugli altri con la forza. La novità che salta agli occhi è il coraggio, la determinazione con cui la gente scende in piazza. Ma ce n’è anche un’altra, meno vistosa, ma forse ancora più importante: il modo in cui lo fa. Quando l’8 marzo Hezbollah aveva portato in piazza mezzo milione di persone, non l’ha fatto sotto le proprie insegne abituali, la bandiera gialla e verde con un pugno che brandisce il kalashnikov. Gli striscioni e gli slogan suonavano: «No all’ingerenza straniera». C’è chi vi ha visto il segno che l’organizzazione musulmana ultrà sciita si prepara a misurarsi sul terreno della politica anziché su quello sinora abituale della guerriglia armata e del terrorismo. Il suo leader, il 44enne sceicco Hassan Nasrallah si è presentato per la prima volta come un leader nazionale che aspira a fare lo statista, non più il capo di una banda armata che guarda all’appoggio di Damasco e Tehran. Il messaggio prevalente, secondo diversi osservatori, non sarebbe stato tanto chiedere che restino la truppe di occupazione siriane, quanto far sapere che Hezbollah intende dire la sua nel futuro politico libanese, possibilmente fungere da ago della bilancia. «Era una manifestazione pro-Hezbollah, non pro-Siria», si è notato. L’argomento principale non sono più i suoi 20.000 miliziani, ma il fatto che il 40 per cento dei 3 milioni e mezzo di libanesi sono musulmani sciiti. Erano nati guardando a Khomeini e alla sua rivoluzione islamica in Iran, potrebbero, secondo questa interpretazione, costruirsi un futuro solo guardando all’ayatollah Sistani in Iraq, insomma lavorare per farsi contare nelle urne. «Si siedono al tavolo del gioco della democrazia. Dicono alla comunità internazionale che non li si può più ignorare», azzarda qualche esperto. Segni di uno sviluppo nella stessa direzione si sono avuti anche in Palestina, dove pare che sia Hezbollah che Hamas abbiano ora voglia di misurarsi nelle elezioni. Sono ora seguiti con attenzione anche a Washington, e a Gerusalemme. Non è una certezza, ma una possibilità preziosa. Una voglia struggente di politica sembra emergere anche dall’opposizione. Ormai la si chiama «rivoluzione dei cedri». Ma loro si definiscono «intifada per l’indipendenza». Non intendono cedere al ricatto: o l’ “ordine siriano” o il ritorno alla guerra civile. Manifestano con le bandiere libanesi. E anche se s’è visto sventolare gioiosamente qualche bandiera americana, molti dei dirigenti del movimento sembrano volere innanzitutto evitare che la loro possa essere vista come una “rivoluzione americana”. «Noi non vogliamo diventare un altro Iraq», ha detto uno di questi al Washington Post. «Sa che la primavera di Beirut avvizzirebbe e morirebbe se la forza per il cambiamento venisse impersonata dagli Stati uniti, anziché dal popolo libanese», l’interpretazione del columnist David Ignatius. Si discute molto se quel che succede in Libano non possa essere considerato merito di Bush e delle sue guerre, non dia in qualche modo ragione alle teorie «del domino della democrazia» dei neo-conservatori più bellicosi. Ma così la questione è malposta. Nessuno ha voglia di essere “liberato” con la baionette. Né di fare la fine dell’Iraq. La spada di Damocle sul Libano è rappresentata dall'estremo spezzettamento religioso ed etnico, tra cristiani maroniti, drusi, mussulmani sanniti e sciiti, a loro volta divisi in decine (almeno 17, forse una trentina) di sette, partiti, movimenti, formazioni politiche. Per 15 anni si erano fatti la guerra tra di loro, per altri 30 si erano guardati in cagnesco, coltivando i vecchi odii e ricordando le cicatrici, cercando “protettori” esterni, ciascuno molto interessato per ragioni che nulla avevano a che vedere con gli interessi del Libano e dei libanesi. Su quella strada non c'è che nuovamente la guerra civile. Mentre solo la politica può riuscire evidentemente a tenere insieme 27 “partiti” diversi. Il gioco sarà durissimo, a tratti niente affatto bello a vedersi. Molti, a cominciare dalla Siria del rampollo Assad, hanno molto da perdere nel gioco, hanno interesse a mandarlo a monte. Molti hanno ragioni di preoccuparsi anche nel caso che la Siria ottemperasse davvero alla promessa di ritirarsi completamente dal Libano (qualche apprensione che si possa precipitare nel caos c’è anche tra gli addetti ai lavori in Israele, che pure ha sempre preteso il ritiro). Ma è opinione diffusa che la scelta più “catastrofica” di tutte, e prima di tutto per il movimento per la democrazia in Libano, sarebbe gestire la cosa “ideologicamente” come lo fu in Iraq. La foto di una splendida ragazza dalle fattezze arabe, che manifesta sulle spalle di un compagno, in prima nei giorni scorsi su molti giornali nel mondo, ricorda analoghe scene nelle piazze d’Europa nell’89, in Ucraina l’anno scorso. Ma non bisognerebbe scordare che erano state possibili anche perché non si sono fatte guerre per “liberare” l’Est europeo dal comunismo o la democrazia ucraina dall’ingombrante presenza della Russia di Putin. A me hanno fatto venire in mente l’analoga celebre foto del Maggio parigino nel 1968. Alla manifestazioni del movimento si contrappose una altrettanto imponente manifestazione della “maggioranza silenziosa” pro-gollista ai Champs Elysées. La conta in democrazia però non si fa sul numero dei manifestanti - non so se a Beirut fossero milioni, su una popolazione libanese di 3 milioni e mezzo, o mezzi milioni - si fa contando le schede, tutte le scehede, nelle urne. E l’auspicio e che anche in Libano possano farlo il prima possibile.
La politica internazionale passa inevitabilmente per la capitale dello stato iracheno in questi giorni.
I legami che sono emersi tra Iraq e Iran e tra Iraq e stato di Palestina pongono l’estrema attenzione sulle dinamiche medio-orientali.
Ci vorrebbe un’analisi opportuna dei grandi leader del mondo per aiutare a risolvere la terribile tela che è stata tesa ultimamente. Bisognerebbe domandarsi quanto questa situazione ha a che fare proprio con la guerra di liberazione-occupazione americana…
Intanto il presidente Bush, tra una partita di golf e l’altra, si dichiara ottimista,
e in Italia, il ministro della Difesa,Antonio Martino, annuncia che non ci sarà nessun cambiamento sulla tabella di rientro dei nostri soldati impegnati in Iraq.
Ma come?! Non ho sentito bene?! Fino a ieri lo slogan del governo era “ saremo lì fin quando le autorità irachene lo vorranno”, e poi ha annunciato il ritiro a partire dal giugno 2006, e mai come ora che serve un aiuto a stabilizzare un paese in crisi, ve ne volete andare? E gli iracheni? E le autorità ?
Sotto le bombe, nascosti nei bunker e nei rifugi, la popolazione irachena (con la paura di scoprire le introvabili armi di distruzione di massa…) non sa più se benedire o maledire il NOVE APRILE…