Noi laici senza parole di fronte al lutto di massa
di David Bidussa
Non è più il tempo della riflessione pubblica dei laici. Quest'aspetto non riguarda solo la partita tra credenti e non credenti. Il silenzio dei laici solo in apparenza chiama in causa la dimensione della fede. Riguarda, invece, altre cose. Per esempio: come si pensa l'identità nazionale; oppure cosa si intende per identità collettiva. Dai simboli, dai riti, dalle parole che rispettivamente si scelgono dipenderà quanta laicità caratterizzerà le nostre società politiche e i nostri orizzonti culturali domani.
Considereremo due scenari diversi.
Primo scenario: la Polonia di questa settimana. Secondo le ultime notizie molti polacchi saranno a Roma venerdì. Perché? La risposta potrebbe essere semplicemente: perché Giovanni Paolo II era uno di loro. Ma è una risposta sufficiente? Non credo.
Ciò che comunica questa cerimonia dell'addio è la spasmodica ricerca di una dimensione terrena da parte di una realtà nazionale che nemmeno con l'entrata in Europa, nemmeno con la partecipazione all'operazione militare in Iraq, sembra aver trovato un suo luogo di definizione.
Marca cattolica protesa verso le terre dell'ortodossia cristiana e luogo sospeso tra adolescenza e maturità - un tema che Witold Gombrowicz ha saputo trasformare in dimensione letteraria - la Polonia di oggi è forse la metafora più inquieta di una condizione sopravvissuta all'Europa del Muro.
Secondo scenario: le folle che ancora cercano un contatto con Giovanni Paolo II. Uomini e donne, che lo guardano e si espongono - e ancor di più espongono i loro figli, alzano in alto i neonati.
La dimensione di questa folla disciplinata in coda non era prevista. Ma queste scene dicono essenzialmente altro: guai a coloro che vivono il proprio dolore in solitudine o in riflessione muta. Raramente l'agire pubblico ha mandato le sue lettere di disdetta con celerità immediata. Queste immagini dicono che il lutto può essere comunitario e pubblico, o non è.
C'è una solitudine dei laici, oggi. Si potrebbe osservare che sta nella mancanza dei riti pubblici, nella assenza di una prassi comportamentale che stabilisca norme, regole, segni.
E' vero. Noi laici non abbiamo riti collettivi, un simbolo, o un elemento di cultura materiale capaci di dire "ci siamo, siamo qui, siamo noi". Non è una questione di metodo o di forma mentale.
Quando si parla di laicità di che si parla? Parliamo di un metodo? Ragioniamo intorno a una disposizione d'animo? Siamo sostenitori di una retorica che corrisponde anche a una educazione formale? Certamente.
Tuttavia dubito che la laicità sia esclusivamente o soprattutto un contenitore che alla fine tende a coincidere con la società delle buone maniere.
Perché la laicità - dimensione molto bistrattata e talora guardata come una bella signora che ha fatto il suo tempo - riacquisti spazio e si dia una dimensione pubblica occorre che si riscopra con fermezza il terreno della dimensione scettica.
In quel terreno si colloca la battaglia della libertà contro l'oppressione del dispotismo assolutista, la passione per il dubbio contro le certezze dell'entusiasmo (così nel '600; oggi lo chiameremo fondamentalismo) religioso, la aspirazione della libertà negativa che delinea i limiti del potere rispetto all'individuo, la difesa degli spazi di coabitazione tra culture diverse, il senso del limite che deve maturare un rapporto con la possibilità di governo dello sviluppo senza per questo - appunto - credersi Dio o, peggio, sostituirsi a lui. Una dimensione, del resto, da cui mette in guardia anche il testo biblico. Che cos'è il libro di Giona se non questo?
Questo dice la dimensione della laicità rispetto all'evento della morte di Giovanni Paolo II, proprio per le domande che sollecita. Ma è una dimensione muta in questi giorni. Almeno è quella che finora non ha trovato le voci per farsi parola pubblica.