Te la canto io questa America
Robert Lepage in scena con «Busker’s Opera». Divertente e dissacrante
di Maria Grazia Gregori
Lasciando per una volta i racconti fluviali sulla storia della civilizzazione del Canada e sui flussi migratori che hanno popolato il paese, rinunciando ai suoi visionari spettacoli minimali, Robert Lepage, quarantottenne talentoso drammaturgo canadese, geniale regista teatrale e cineasta di culto (visto anche a Cannes), si confronta con The Busker's Opera, in scena al Teatro Strehler, non tanto con il musical quanto con la madre di tutte le operette, quell'Opera del mendicante di John Gay (1728) che mescola in chiave ironica e popolare testo e musica, di cui si ricorda ai tempi nostri un film di Peter Brook con un Lawrence Olivier canterino. E che ha affascinato anche Brecht che ne fece una riscrittura mitica , L'opera da tre soldi (1928), con le meravigliose musiche di Kurt Weill. Ci racconta Lepage, forse il regista più brechtiano del continente americano, che in realtà avrebbe voluto riscrivere in chiave contemporanea proprio il testo di B.B., ma gli sono stati negati i diritti e allora, facendo di necessità virtù, è tornato all'origine. Il risultato è questo divertente, smitizzante, coinvolgente The Busker's Opera dove Busker è il nome che si dà agli artisti di strada. Non un'opera del mendicante, dunque, ma un'opera degli artisti vagabondi e liberi, una specie di Nashville, popolare e colta, colma di musica.
L'idea di Lepage, infatti, è di portare la storia all'oggi pur mantenendo per i songs i testi di John Gay, magari riadattati, dove si racconta a tempo di rock con spiazzamento paradossale, che quando una giovane ragazza perde la verginità è come un fiore nel fango. In scena però non ci sono prostitute, ladri e poliziotti come nell'originale, ma cantanti e dj, agenti di spettacolo, star emergenti, il mondo corrotto dello show business, quello della politica spesso reazionaria, i vizi della provincia americana, l'apparizione del Ku Klux Klan, il grande show, l'invadenza dei media.
L'azione, che ha per protagonista Macheath, un ribelle divo del pop in aderenti pantaloni di pelle nera, un incrocio ruspante fra Woody Guthrie e Tom Waits, comincia a Londra, si sposta a New York, passa per Las Vegas, giunge a New Orleans e ha il suo punto di arrivo a Huntsville , Texas, il «paradiso» della pena di morte dove, al contrario della storia raccontata da Gay e anche da Brecht, il nostro eroe in tuta arancione dei condannati viene giustiziato con un'iniezione letale.
Dentro questa storia se ne intrecciano altre: gli amori di Macheath con Polly, figlia dell'agente musicale senza scrupoli Peachum, che fa la dj; con Jenny, che lavora in un peep show; con Lucy, figlia dell'avvocato Lockit, che, però, partorirà un bambino nero figlio di altri amplessi nascosti. Ma Macheath sarà preso prigioniero e mandato a morte grazie alla trappola tesagli da Peachum e Lockit che si sono consociati non tanto per vendicare l'onore delle figlie quanto per impadronirsi dei diritti delle sue canzoni…
Tutto questo il regista lo racconta, grazie a formidabili attori cantanti, con la musica, una cavalcata fra country , pop, rock, spiritual, blues, jazz, reggae, ska, rap con momenti esilaranti: Peachum e Lockit che fanno il verso a tanti duetti fra Frank Sinatra e Dean Martin (o Sammy Davis); una specie di Carmen Miranda che imita tutti i generi rubando da tutti un po'; Polly e Lucy che si confrontano cantando l'una su ritmi yiddish l'altra su ritmi arabi, mentre scorrono su di uno schermo - a citazione dei cartelli brechtiani - il tempo e il luogo dell'azione e le parole delle canzoni. A venire in primo piano è l'affascinante linguaggio teatrale di Lepage: mescolare la recitazione alla musica eseguita in scena, il movimento al canto, la parodia (divertentissima l'apparizione di un notabile repubblicano della Louisiana con cappello da cow boy che chiede voti per sé e che si spertica in elogi sul presidente che è impegnato a esportare «la nostra democrazia» fra l'incomprensione degli artisti, scatenando gli applausi del pubblico) all'uso del video e della macchina da presa in tempo reale come terzo occhio che tutto segue. Uno spettacolo che è anche (brechtianamente) una critica alla società americana. Un pastiche divertente, ambizioso e vitale, fra sciabolate di luce, scene che si costruiscono a vista usando pochi elementi: a contare, infatti, è il proscenio, il contatto con il pubblico e l'uso sapiente del microfono portatile, tenuto in mano dagli attori cantanti come protesi seduttiva e tecnologica.
Lepage, il teatro che non sta fermo
Tra spettacolo infinito e frammento
Uno spettacolo infinito o il frammento: sono queste le due linee creative lungo le quali si è mosso e ancora si muove il teatro di ricerca. Lo spettacolo infinito è l'utopia che ha da sempre nutrito gli innovatori della scena: un racconto globale ed epocale, un flusso ininterrotto di esperienze (gli sterminati spettacoli di Bob Wilson negli anni ‘60 e ‘70 e in epoca più recente quelli di Luca Ronconi e dello stesso Robert Lepage) ma anche un lavoro aperto, in divenire, dove a fare da collante è la cifra estetica vissuta spesso in chiave di autobiografia teatrale (Carmelo Bene, Living Theatre, Kantor, Grotowski, Barba, Lev Dodin, Nekrosius, l' avanguardia italiana ed europea degli anni ‘60). Il frammento, invece, nutre la scelta di raccontare per accumulo e folgorazioni come hanno fatto fra gli altri Barberio Corsetti, i Magazzini e ancora fa la Societas Raffaello Sanzio . Il frammento permette di analizzare, di chiarire il bersaglio, di verificare nuove strade. Mettere insieme il racconto infinito e il frammento, lo sviluppo nel tempo e la velocità dell'attimo, è oggi, forse, una delle chiavi possibili per leggere lo spettacolo della seconda metà del ‘900 e ancor più quello del millennio appena cominciato. Intrecciato a questi due momenti, filtrato dal corpo dell'attore, c'è il «modo» in cui si racconta. Grazie alle avanguardie ci è impossibile pensare a un teatro definitivo valido per tutte le epoche: e spesso il senso del presente e del futuro sta nel modo in cui si racconta, nell'uso dei materiali, nell'intreccio dei linguaggi, nell'interdisciplinarietà dei mezzi usati dal cinema alla televisione, al computer grazie ai quali rompere, con un grande interrogativo aperto sul futuro, la barriera spesso rassicurante della parola fine a se stessa. Un dubbio vitale ma anche una certosina ridefinizione della propria esistenza, necessità, obiettivi, spinge il teatro a confrontarsi con la vita e la società senza rinchiudersi nelle secche dello stile fine a se stesso.