Il Papa e i messaggi di quel corpo fragile
di LIVIA TURCO
Cosa resta dell’emozione così intensa, così individuale ed al contempo universale, provocata dalla morte di papa Giovanni Paolo II? Possibile che tutto rifluisca nell’ambito della coscienza individuale e ritorni ad essere solo affare della Chiesa impegnata a scegliere il suo successore? Sono convinta che il modo in cui il Papa ha vissuto la malattia e la morte sia stato così inedito e forte da aver inciso non solo sulla coscienza individuale ma abbia potuto alimentare un nuovo spirito pubblico ed una nuova etica condivisa. Infatti, nel modo di vivere la malattia e di morire, il Papa ha scritto una grande enciclica sul dolore e sulla fragilità della vita umana. Una enciclica che ci ha ricordato e ci ricorda che il dolore, la sofferenza, la morte non sono opposte alla vita, ma fanno parte del suo normale fluire. Che, in quanto tali, non vanno nascosti, rifiutati o solo consolati. Ma interpellati ed ascoltati per raccogliere la sapienza di cui sono dotati. Giovanni Paolo II ci ha testimoniato che dolore e sofferenza possono, paradossalmente, attivare straordinarie capacità umane e fisiche di una persona, magari rimaste fino ad allora inesplorate. Che, dolore e sofferenza, possono, paradossalmente, esprimere la loro intensa vitalità. Il Papa che nel corso degli anni aveva affermato e difeso con spirito guerriero il principio della sacralità della vita umana, risultando talvolta lontano dalle vicende concrete dell'esperienza umana, nella fase finale della sua esistenza ci ha consegnato quel valore a Lui così caro - la sacralità della vita umana - attraverso la narrazione pubblica del suo corpo sofferente. Ha scelto la condivisione pubblica del suo corpo malato e del suo dolore per darci una grande lezione sul valore della vita e della dignità umana, riuscendo, forse, a convincere tanti che ne erano rimasti lontani o distratti. Esprimo questo sentimento e questa convinzione dopo avere provato fastidio, lo confesso, per l’esposizione così esageratamente mediatica di quel dolore e di quella morte. Anch’io, come Pietro Scoppola, (la Repubblica del 9 aprile) ho sentito il bisogno di pregare il Papa andando a Messa nella parrocchia cui sono affezionata per un bisogno di solitudine e di discrezione che mi mettesse di fronte alle responsabilità della mia coscienza. Ho sentito di amare molto quel Papa capace di condividere come ciascuna umanissima persona il suo dolore e la sua fragilità. L’ho sentito molto moderno mentre con il suo corpo malato sfidava il mito dell’autosufficienza, del successo, della invincibilità così radicato nel nostro tempo. E l’ho sentito molto femminile nell’esporre la sua fragilità e nel testimoniare fino in fondo la sua disponibilità al sacrificio. Che è poi ciò che chiedeva alle donne. A loro, infatti, ha chiesto di promuovere con radicalità il valore della vita a partire dalla pietà e dalla cura dell'altro. Che non era la riproposizione del tradizionale ruolo materno ma la consapevolezza che in questa forma della libertà personale e della individualità umana non solo risiede la “verità” dell’uomo ma anche il punto di vista più fecondo per promuovere un progetto di liberazione umana. «La cura dell’altro» quale punto di vista privilegiato da cui governare il mondo. Perché il mondo non ne può fare a meno. Avere collocato il “genio femminile” così all’apice del mondo moderno, è stato, a mio avviso molto più profetico che non riconoscere il sacerdozio femminile. Dobbiamo raccogliere il testamento del corpo fragile e sofferente che Giovanni Paolo II ci ha lasciato. Per guardare con sguardo più attento le vicende che ci stanno di fronte. Per costruire insieme una concreta amorevolezza nei confronti della vita umana di cui i valori della dignità umana, della vita dignitosa, della coscienza del limite possono costituire l’intelaiatura essenziale entro cui comporre i diversi punti di vista e le diverse culture. Perché non provarci a partire dai temi che sono sul tappeto?
Vorrei un contatto con Livia Turco. Il mio gruppo scout vorrebbe chiamarla a presentare il suo "Inuovi Italiani"