L'antifascismo del 25 aprile entra in crisi con Tangentopoli
La crisi o il declino dell'antifascismo occupa da varie settimane una porzione non irrilevante del dibattito pubblico.
Quando è entrato in crisi l'antifascismo? Durante i 55 giorni del rapimento Moro come ha sostenuto Sergio Luzzatto sul "Corriere" perché lì finirebbe la pratica del consociativismo?
Oppure dopo? nel momento in cui cessa la convenzione ad exludendum, nei confronti del Movimento sociale italiano?
La scena è nota. Non è quella di Giorgio Almirante che nel giugno 1984 rende omaggio alla salma di Enrico Berlinguer. Bensì nell'atto di omaggio con cui Giancarlo Pajetta nel 1988 va a rendere l'ultimo saluto a Giorgio Almirante. Lì davvero è l'Italia di un'altra epoca che si guarda in faccia. Ma che non si riconcilia. Forse lì si rompe il principio della non comunicabilità, ma ancora non si palesa la crisi dell'antifascismo.
L'antifascismo è stato un progetto politico sulla base di valori e poteva dirsi chiuso o in crisi solo sulla base di un processo analogo: ovvero un progetto politico costruito su valori.
Il tema perciò della tregua tra forze o della riscrittura del patto tra forze se pure è parte della crisi dell'antifascismo non ne sancisce di per sé il compimento. L'evento della crisi dell'antifascismo presume non solo un discorso relativo agli attori politici, ma la fisionomia di un sistema che esprime un diverso impianto politico.
La crisi dell'antifascismo si potrebbe dire si colloca all'inizio del ciclo politico all'indomani del processo che conclude la Liberazione e dopo un lungo percorso si ripresenta nel passaggio agonico dalla Prima a una "qualche" Repubblica. Sono due modalità distinte di crisi e non sono una la replica dell'altra.
Prima modalità. Il 29 aprile 1945, Leo Valiani su "L'Italia libera" scrive: "…sarebbe bello lasciarsi prendere da folle gioia. Se la fede nella libertà, dopo il trionfo, si discioglie nell'entusiasmo, fra pochi mesi riavremo l'Europa dei nazionalismi. La vittoria sulla Germania che esalta il combattente della democrazia, esalta anche ed eccita l'orgoglio sciovinistico, gli interessi contrastanti e la sete di potenza degli stati nazionali che si proclamano assolutamente sovrani, di diritto e di fatto, quando sono alleati, che aspirano a ridiventarlo, quando sono semplici cobelligeranti".
Sono gli stessi temi che mesi prima Carlo Levi aveva indicato in un suo editoriale su "La Nazione del Popolo" invitando ad andare oltre l'antifascismo (lo si può leggere ora in Carlo Levi, La strana idea di battersi per la libertà, p. 84 e sgg.). Il tema è dunque l'Europa di domani.
In altre parole la possibilità dell'antifascismo di non esaurirsi nella Resistenza, soprattutto come guerra di liberazione nazionale. E' un passaggio che non avviene. L'antifascismo rimane in piedi proprio in relazione a una scelta che privilegia la ricomposizione nazionale e che lo legittima perché ritenuto e accreditato come l'erede delle distinte storie nazionali e consegnandosi come lessico politico della Resistenza.
Ma l'antifascismo non è il compromesso ciellenistico. E' il progetto di un'altra Italia possibile rispetto a quella liberale giolittiana. La pensano in molti e non omogeneamente: comunisti, azionisti, socialisti, liberali, cattolici. Li unisce non un patto, ma la convinzione che un'altra Italia sia possibile e che questa uscirà da un confronto politico.
Consideriamo la seconda modalità.
E' l'Italia di tangentopoli che riscrive nei fatti l'idea di "italiano" e di italianità. Quella riscrittura avviene di nuovo su una rottura che dice preliminarmente che cosa non si vuole essere e chi si considera il proprio nemico irriducibile. E' di nuovo la categoria di interesse nazionale a ritornare in campo e ad agire da elemento separatore. Qui si riscrive una nuova convenzione ad exludendum e ancora una volta il tema riguarda la definizione del profilo nazionale. Solo che questa volta la tavola dei valori si profila in nome di un interesse generale che taglia trasversalmente l'asse destra/sinistra e persino agisce all'interno delle singole forze politiche.
In questa congiuntura entra definitivamente in crisi il paradigma antifascista perché è costretto a prendere atto che una parte delle famiglie politiche che originariamente lo hanno composto non sono annoverabili tra i possibili soci fondatori; che appartenervi non garantisce e, infine, che proprio la parte politica precedentemente esclusa si candida ereditare l'idea che "un'altra Italia è possibile". L'antifascismo entra in crisi in quella congiuntura, perché non ha un passato a cui appellarsi, ma deve prendere atto di una nuova geografia della moralità politica con cui occorre fare i conti.
Forse era meglio non estendere il numero dei lettori di questi pensieri privati di Bidussa, no? ;-)
Perché? Mi sembra interessante.
è proprio questo il nocciolo della questione. il 25 aprile è il pilastro etico sul quale si sono costruiti gli anni successivi di democrazia. Smantellato questo passato resta il deserto