Una storia da scrivere
di DAVID BIDUSSA
Che cosa rimarrà dopo il 25 aprile 2005? Concluso il ciclo del 60° anniversario, quale sarà la sintesi che avremo di fronte?
In due libri diversi, Milan Kundera ha invitato le generazioni dopo a confrontarsi con gli strappi del passato. Ne L'ignoranza l'asse della storia si svolge intorno al ritorno degli esuli in patria segnato da costante scontro con una realtà fondata sull'oblio, l'assenza, l'ignoranza, appunto In Il libro del riso e dell'oblio, il tema è lo scontro tra memoria condivisa e dimenticanza. Al centro stanno le storie di ingiustizia, non riparabili dopo, ma anche nel tempo dimenticate.
Può darsi che la storia dei drammi dell'Est nel secondo dopoguerra sia diversa, se non opposta, a quella dell'Italia repubblicana. Resta, tuttavia la questione delle storie non raccontate e della necessità di affrontarle. Di là delle questioni storiografiche sollevate da più parti, il libro di Giampaolo Pansa Il sangue dei vinti (Sperling) rappresenta questa sfida.
Quel libro contiene racconti con cui il mondo della Resistenza deve fare i conti, anche se deve essere chiaro che nella storia i momenti fondativi della società rispetto a una dissoluzione rappresentata dalla fuga dello Stato includono che si sparga sangue. Ci sono situazioni in cui lo scontro non è un pic-nic.
Ma in quelle contingenze tutti gli attori sono chiamati in causa a rendere conto di sé.
Quel racconto riguarda i lati oscuri di tutti i protagonisti della scena di guerra interna 1943-1945, della Resistenza, di Salò e di coloro che rimasero alla finestra convinti che evitando una scelta si potesse rimanere innocenti nella storia.
La partita che si gioca in questo 60° solo apparentemente è rievocativa. Questa è probabilmente l'ultima occasione che vede presenti i protagonisti di una storia in diretta, i sopravvissuti, coloro che il 25 aprile 1945 riacquistarono non solo il diritto di parola, ma anche la possibilità di usarlo e la consapevolezza che parlare si poteva, che rientrava tra i diritti inalienabili, e non solo esercitabili.
Dopo la loro scomparsa, a noi rimarranno le storie, le narrazioni, e la necessità di farvi i conti.
Possiamo ritenere che quel momento sia ancora lontano e che dunque si possa ancora pensare al 25 aprile come una data dei vittoriosi che ritornano nelle strade e rievocano un momento della storia propria che volle proporsi come storia di e soprattutto per tutti.
Ma non credo che ci sia ancora molto tempo. Come interrogarci su quelle storie? Lo possiamo fare in due modi: o come rivendicazione incontaminata ed eroica o in una dimensione civica.
Consideriamo la prima via, la narrazione epica. Al suo interno oltre le ragioni, ci sono l'ira, la crudeltà, il senso di vendetta che informano la scena. Una narrazione senza colpe, in cui l'azione fonda l'individuo e lo rende simile all'eroe delle fiabe. Riguarda l'autonarrazione di tutte le figure di allora: i vinti, gli spettatori, i vincitori.
E' un percorso da cui si può fuoriuscire: lo dimostra Mimmo Franzinelli con la riedizione critica delle Ultime lettere di condannati a morte e di deportati della Resistenza (Mondadori). Un testo in cui si esce dalla versione eroica del partigiano e si riscoprono dimensioni umane, contraddittorie, familiari. Niente è più estraneo dall'idea di partigiano della maschera di combattente "senza macchia e senza paura". La distanza storica include anche che si fuoriesca da questa immagine di maniera e si ritrovino donne e uomini che con incertezze e contraddizioni riuscirono a testimoniare di una umanità autentica.
Nella narrazione civica, invece, dominano le incertezze, i dubbi, il senso dell'offesa, la lacerazione, la percezione che in guerra si va e si combatte per un bene da ritrovare, per qualcosa che va recuperato, ma anche, contemporaneamente, perdendo qualcosa. Si perde, per esempio, la capacità di mettere insieme lo stare dalla parte giusta e la lucidità di non farsi travolgere dall'emozione, dal delirio di potenza, dall'ebbrezza della vittoria, dalla propria rabbia di fronte allo sconfitto.
Riprendere a leggere le storie inquiete intorno al 25 aprile e dopo il 25 aprile è forse il compito immediato e più difficile che oggi sta di fronte a coloro che idealmente ereditano il testimone da chi il 25 aprile gioì della vittoria. E' un compito ineludibile, tuttavia.
Per questo la lettura del libro di Giampaolo Pansa è necessaria. Ma è necessaria per un parte, quella che allora vinse. Quella che allora perse, e quella che allora rimase a guardare devono ancora raccontare per intero la propria storia, abbandonando definitivamente il mito del bravo italiano. Non si esce innocenti guardando solo le contraddizioni dell'altro. E' una condizione troppo comoda e fuori luogo. C'è qualcuno in grado, senza giustificazionismi, di aprire quei dossier?
consiglio all'ottimo Bidussa il libro "Asce di Guerra" di Wu Ming e Vitaliano Ravagli, Milano, Marco Tropea, 2001.
Non capisco questa strategia dell'abbraccio del nemico, questa simpatia per chi perse, questo giustificare il perche' hanno vinto i buoni invece dei cattivi che ossessiona tanti personaggi della sinistra ufficiale; partendo da Bentivegna per passare a violante e finire con Bidussa (pansa non lo considero ne' intellettuale ne' di sinistra).
Che tutti costoro prendano per dogma il famoso aforisma "non c'era piu' nessun posto, cosi' ci siamo messi dalla parte del torto"?
Che siano ossessionati dal complesso del film western? (gli indiani perdono sempre ma sappiamo che, storicamente, i "buoni" erano loro).
Per una volta che abbiamo vinto noi, per una volta che fascisti e capitale si sono cacati sotto, come negli anni tra il 1968 ed il 1980 stiamo qui a riflettere sul fatto che il nemico non era poi cosi' cattivo?
Ma dove abbiamo la memoria e il cuore?
la mia bisnonna paterna, nobildonna papalina e reazionaria, sapeva benissimo dove fosse il giusto ed il buono: nascose ebrei ed antifascisti, perche' quella era la cosa giusta da fare.
Mio nonno paterno attraverso' le linee a piedi rientrato dalla francia dopo l'8 settembre per andare verso Roma coi fascisti che lo cercavano perche' continuasse a combattere per la rsi, lui che era stato volontario in etiopia, sapeva che era la cosa giusta da fare.
Un mio bisnonno di parte materna, alpino decorato in guerra, dovette smettere di lavorare come commerciante perche' rifiutava l'iscrizione al fascio, sapeva benissimo dove fosse il giusto e pago' per questo.
Perche' non ricordiamo le scelte dei nostri nonni e non impariamo a rispettarle? Perche' non ci vogliamo togliere questo complesso del "volemose bene" o "chi ha avuto ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato ha dato, scurdammoce 'o passato [..] paisa'" (e non per nulla questa canzone e' del 45 o del 46)?