Moro, la violenza raccontata solo dai carnefici
di David Bidussa
Il 9 maggio 1978 fu ritrovato a Roma il corpo di Aldo Moro, presidente della Dc.
Qualcuno ha osservato che rispetto al terrorismo e agli atti di violenza dell’Italia degli anni ’70 c’è solo la memoria pubblica dei terroristi e che i libri e le interviste degli anni di piombo vedono al centro solo la voce del terrorista, in contrapposizione a quello del politico, mai quelli dei familiari o degli intimi delle vittime.
Venrtisette anni dopo il delitto Moro, ci sono vari segnali che forse indicano l’inizio di una nuova stagione. Almeno due sono degni di nota.
Il primo riguarda la memoria dei parenti delle vittime. Marco Sambo, nipote di Ezio Tarantelli, ucciso dalle Br il 27 marzo 1985 ha scritto un libro (Contro chi, Castelvecchi editore) per raccontare il suo rancore, la sua ira, e la sua sofferenza da allora. Soprattutto per dare voce all’altra parte, quella del lato dei caduti per terrorismo, quella delle vittime del terrorismo, protagoniste di una stagione italiana senza averla scelta.
Il secondo riguarda l’inizio di una ricostruzione documentaria e storiografica che forse può permettere una lettura articolata. Con il libro di Agostino Giovagnoli (Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, il Mulino) uscito in libreria alla fine di marzo, ha iniziato ad affermarsi la possibilità che finalmente la parola passi agli analisti dopo essere stata gestita per anni dai protagonisti attivi di allora, fossero gli esponenti della lotta armata o quella parte di classe politica che allora gestì i “55 giorni” di Moro.
Come l’ombra di Banquo nel Macbeth di Shakespeare così il caso Moro ha continuato a girare nella storia italiana. Talora è emerso con documenti ritrovati in luoghi sorprendenti o con le testimonianze di figure spesso tenute ai margini. La sensazione è che la verità si sia tenuta lontana in tutti questi anni. In quanto mistero, il caso Moro non era sondabile o scrutabile e dunque rispondeva a leggi proprie sotto la gestione delle due categorie protagoniste dello scontro di quella primavera 1978: da una parte i testimoni del partito armato, dall’altra quel segmento di classe politica che discuteva sul “che fare”. In mezzo un’opinione pubblica rimasta a guardare di là dal vetro, come il visitatore all’acquario.
In questo confronto spesso c’è stato il pettegolezzo, il gusto del paradosso, i particolari di contorno. In breve il teatro. Ma la storia ha stentato, e ancora stenta a venir fuori. E’ possibile affrontare quegli anni senza teatralità? Si può parlare della violenza senza oscillare tra dramma e commedia? Ci si può provare. Con alcune premesse indispensabili.
C’è una verità dei fatti che obbliga a prendere in considerazione le vicende del passato. Verità dei fatti, vale a dire come le cose sono andate e che per ciò non possono essere né annullate (come se non ci fossero state) né modificate a piacimento.
Poi c’è la violenza, la sua memoria, e il fatto che ancora molti devono fare i conti con quella violenza: i protagonisti di allora; quelli vicini che non condividevano la scelta ma si muovevano nella stessa area; quelli che vi si opponevano, ma che rimasero a guardare altri che si trovarono soli. Guido Rossa, come molti altri (Tobagi, per esempio), morì anche per questo: perché era solo.
Non sono state di aiuto per conoscere e capire, le narrazioni scritte che in questi anni hanno fornito i protagonisti della lotta armata. Questo vale per Valerio Morucci (La peggio gioventù, Rizzoli), Enrico Fenzi (Armi e bagagli, Costa & Nolan); e i molti militanti che si raccontano (Giovanni Bianconi, Mi dichiaro prigioniero politico, Einaudi). I politici di allora hanno scritto poco e spiegato ancora meno: vedi gli Atti della Commissione d’inchiesta parlamentare, dove si trovano più silenzi che dati.
Ma neppure le conversazioni televisive hanno contribuito a fornire un quadro comprensibile. Tra le ultime quella allestita dal format televisivo “La storia siamo noi” nel confronto tra il Senatore Francesco Cossiga e Adriana Faranda, esponente delle Br storiche e protagonista, insieme a Valerio Morucci, della vicenda Moro: a parte il tono salottiero alquanto fuori luogo, non ha brillato per concretezza.
Dopo 27 anni, non si sente il bisogno né delle “buone maniere”, né di una versione di comodo che renda più gradevole e “digeribile” quella vicenda, né che qualcuno comunichi le sue emozioni. Abbiamo bisogno, invece, che chi parla, o scrive, contribuisca a costruire uno scenario chiaro e definibile.
Ma nel confronto tra i protagonisti di allora che ancora ripetono le loro considerazioni, non ci sono riflessioni, valutazioni, distacchi critici dal passato e senso della responsabilità. La politica era un gioco. L’atto pubblico era estetico. Aveva valore come azione esemplare.
E’ ancora così e perciò questa narrazione in pubblico forse risponde a un bisogno autocoscienziale, ma non aiuta a definire una consapevolezza pubblica. In un certo senso ribadisce il carattere egocentrico di figure che non vogliono o non riescono ad uscire dalla loro maschera. Ieri l’estetismo era concentrato nell’atto violento come istanza creativa della storia o in quello della “decisione grave da prendere in solitudine”; oggi in quello eclatante della riflessione sofferta o dell’uso della frase a effetto.
Ma in quell’atto, allora come ora, non c’è responsabilità, non c’è la presa in carico della storia e dei suoi effetti. C’è l’istrionismo di chi pensa di essere al centro della scena. E’ per questo che non c’è la verità dei fatti, ma solo la loro teatralizzazione.
CITAZIONE:
"del resto sappiamo ormai, per infinite esperienze ai quattro angoli del pianeta, che nessun movimento armato resta indenne dalla mossa piu' ovvia e quasi sempre irresistibile dell'avversario: infiltrare uomini capaci di mimare perfettamente i comportamenti delle formazioni nelle quali vengono immessi. per conoscere in anticipo le loro mosse, se del caso boicottarle, influenzarle o anche, se possono tornar comode, lasciarle fare"
luciano canfora - la sentenza - sellerio editore.
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"noi avevamo agenti che pensavano e parlavano come le brigate rosse"
cossiga.