L’odio contro l’Occidente legato alla guerra di Bush
di Roberto Camero
Wole Soyinka, 71 anni, Nobel per la letteratura nel 1986, ieri sera ha ricevuto a Pescara il prestigioso premio internazionale Flaiano. Lo scrittore e drammaturgo nigeriano parla di una paura intesa come strumento di un potere cieco e brutale, quello dei terroristi, ma anche di alcune democrazie occidentali che calpestano sistematicamente i diritti dei Paesi più poveri. Attraverso questa dominante della paura, l'autore rilegge la storia mondiale degli ultimi 50 anni, dalla guerra fredda all'attentato che nel 1989 costò la vita in Niger a 170 persone che viaggiavano su un DC 10 della compagnia UTA, dall'11 settembre newyorkese alle bombe di Madrid. Al libro manca solo un capitolo, quello che da giovedì stiamo leggendo sui giornali, dopo i fatti di Londra.
Quali sono state le sue reazioni alla notizia delle bombe londinesi?
«Come tutti, sono rimasto scioccato, eppure non posso dire di essere stato sorpreso. Ricordo una sera a Londra, quando pronunciai la prima conferenza della serie ora raccolta in Clima di paura. In quell'occasione criticai duramente l'”avventura” irachena di Bush, ma dissi anche che non dovevamo sottovalutare il pericolo del terrorismo internazionale, affermando che Al Qaeda rappresentava ancora una minaccia molto forte per l’Occidente e che dovevamo mantenere alta la guardia. Qualcuno mi contestò, dicendo che esageravo questo pericolo. Ebbene, neanche 24 ore dopo, sarebbe avvenuto il sanguinoso attentato di Madrid, destinato a darmi tristemente ragione».
E oggi come vede la situazione? Dobbiamo ancora avere paura?
«Quello che vedo è che Al Qaeda è un mostro con molti tentacoli, che ricrescono appena sono stati tagliati. Anche se nel caso di Londra non mi stupirebbe se si appurasse che non si tratta di Al Qaeda, ma piuttosto da un'organizzazione nata sul suo modello, un altro gruppo costituitosi per imitazione».
Il premier italiano Berlusconi ha annunciato il ritiro, a partire da settembre, di 300 nostri soldati dall'Iraq. Crede che una notizia di questo tipo possa diminuire il rischio di attentati in un Paese come il nostro?
«Ritengo che sia illusorio pensarlo. Finché anche un solo soldato occidentale rimarrà in Iraq come appartenente a un esercito d'occupazione i sentimenti di odio e di rancore nei confronti dell'Occidente rimarranno immutati. Questo odio non fa distinzioni di nazionalità. Pensi al caso della giornalista francese rapita. Molti erano stupiti di questo fatto, vista la posizione della Francia sull'Iraq. Ma la violenza terroristica colpisce indiscriminatamente. In altre parole, non si esercita solo contro colui che è individuato di volta in volta come il nemico, ma anche nei confronti di coloro che sono considerati neutrali o addirittura amici. Questo per ricordare a tutti il proprio potere».
Ma secondo lei la situazione irachena c'entra o no con i fatti di Londra?
«È evidente che c'è un legame. Bush ha commesso molti errori in Iraq. Il primo è stato quello di attaccare un Paese sovrano senza un mandato Onu, il secondo il fatto di comportarsi come una potenza occupante. Quando soldati americani calpestano la dignità umana torturando i prigionieri e poi se ne vanno tronfi per le strade delle loro città utilizzando i media con interviste a propria difesa, fanno qualcosa di disgustoso come i crimini contro i quali, almeno sulla carta, si erano mossi».
In un capitolo del suo libro lei parla di una «retorica che accerchia e acceca». Quanto conta questa retorica per far passare certe decisioni?
«Conta moltissimo. La retorica è uno strumento che l'uomo possiede per convincere il suo interlocutore. Tutti noi siamo affascinati da un bel discorso di un bravo oratore. Gli oratori utilizzano come dei “mantra”, delle frasi martellanti che diventano più importanti dei stessi contenuti del discorso. Questi “mantra” oscurano la nostra capacità di critica e vengono usati per strumentalizzare le folle. Ho assistito a degli incontri religiosi in cui, dopo 20 o 30 alleluia, si sarebbe potuto spingere i fedeli a fare qualsiasi cosa. In questo senso espressioni come “alleluia” o “Allah Akbar” si equivalgono».
La retorica è usata anche dai politici…
«Se riascoltiamo i discorsi di Bush quando voleva convincere gli americani della necessità di attaccare l'Iraq, ci accorgiamo che anche lui utilizzava uno di questi “mantra”, quando intercalava continuamente le frasi con l'espressione “armi di distruzione di massa”, “armi di distruzione di massa”, “armi di distruzione di massa”… Che poi di tali armi in Iraq non fosse provata l'esistenza poco importava, era come se ci fossero: la parola, con il suo potere di suggestione, le aveva create. Per questo è importante che noi scrittori preserviamo le parole dall'abuso, le interroghiamo continuamente, richiamiamo l'attenzione sui loro significati. Non sempre ci riusciamo, ma questo è il nostro compito».
Veniamo al G8. Un risultato sembra averlo conseguito: la cancellazione del debito per i 14 Paesi più poveri del mondo. Come valuta questa decisione?
«La valuto positivamente, anche se, in realtà, si tratta del risultato di un processo in atto da tempo. Anni fa si chiedeva alle potenze occidentali una “riparazione” nei confronti del Terzo Mondo, ma esse non accettavano questo termine, perché ciò sarebbe equivalso ad ammettere le colpe del colonialismo e della tratta dei neri. Comunque quello che conta è che finalmente si sia arrivati a qualcosa di simile».
Una maggiore apertura da parte delle grandi potenze nei confronti dei bisogni dei Paesi più poveri può servire a uscire da questo «clima di paura» a cui sembriamo esserci drammaticamente abituati?
«Non credo che sia possibile eliminare la paura, possiamo solo cercare di gestirla. Senza un autentico cambiamento della psiche umana non si toglie la paura. Nell'uomo c'è un istinto verso il potere che è molto forte. Quando, poi, esso viene incrementato da circostanze storiche difficili e da scelte politiche forsennate, finisce con il diventare distruttivo».