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Alberto Biraghi
Man push cart
Ramin Bahrani, regista di questo
film claustrofobico, racconta che l'ispirazione per inventarsi Ahmed, protagonista di questo film, gli è venuta da da Sisifo di Albert Camus. Non è difficile crederli, vista la seduta di claustrofobia a cui l'incauto spettatore è costretto. Intendiamoci: questo non è un brutto film, soprattutto perché raggiunge alla perfezione lo scopo di far sperimentare allo spettatore occidentale il punto di vista di un pakistano che si trasferisce a New York e per campare (male) vende caffè e bagels.
Ahmed trascina la sua vita come trascina il carretto ogni mattina alle tre, in mezzo a un traffico incessante e inquietante, dal garage fino all'angolo di strada che deve riconquistare giorno dopo giorno, versando la fetta grossa dell'incasso.
Perso in un mondo su cui non ha possibilità di intervenire, Ahmed si droga di fatica per non pensare alla moglie morta l'anno prima (per colpa sua?), il figlio piccolo che non riesce a vedere, la sua vita pakistana precedente come cantante di successo, la ragazza carina dell'edicola accanto che tenta di far breccia nella sua corazza.
Probabilmente non arriverà in Italia, ma tralascio altri commenti per evitare uno spoiling (anche se c'è ben poco di imprevisto nel finale, ma tant'è).
Un film duro, fotografato benissimo, diretto quasi al rallentatore, in un eccesso di lentezza che se da un lato aiuta lo spettatore a calarsi in nella realtà allucinante dell'altra faccia della "civiltà occidentale", dall'altro lo sottomette a una pressione faticosa da reggere.
Visione suggerita a tanti ragazzotti adolescenti che si incazzano se al mattino non trovano le brioche calde sul tavolo.
17.09.05 20:47 - sezione
cinema