La crisi del welfare affonda i laici
di DAVID BIDUSSA
Di solito i fischi della piazza sono il segno che gli spazi del dissenso non hanno microfoni. Sarebbe bene, senza coccolare né consolare, cercare di comprendere da dove quei fischi si originino e come si possano trasformare in argomenti. Perché nel dibattito che è seguito in questi giorni ai fischi di Siena, di riflessione pubblica se ne è vista poca. Si è letto molto lamento, un piagnisteo sulla laicità che non c'è e sui laici di destra che latitano (Francesco Merlo ieri su "Repubblica"), oppure sull'assenza a sinistra di una figura che rassicuri anche i cattolici. Perché questa è l'unica preoccupazione che ha avuto la sinistra? Ruini ha diritto di parlare. E questo non per gentile concessione della sinistra, Perché gli studenti non hanno diritto di dissentire? Non credo che i "poveri untorelli" di Siena (per dirla alla Manzoni) rappresentino una minaccia reale. Denunciano uno scollamento, invece, e di questo sarebbe bene preoccuparsi, soprattutto a sinistra.
Il richiamo a Manzoni non è casuale e torna utile anche per altro. A proposito delle polemiche sui fischi di Siena, mi è tornato a mente quel passo dei Promessi Sposi dove Don Abbondio (capitolo VIII) in seguito al tentativo di Renzo e Lucia di costringerlo a celebrare il loro matrimonio. Scrive Manzoni: "Renzo che tiene il padrone assediato in una stanza, ha tutta l'apparenza di un oppressore, eppure, alla fin de' fatti era l'oppresso; Don Abbondio parrebbe la vittima; eppure in realtà era lui che faceva un sopruso". La realtà non sempre è solo quel che appare. Spesso è più complicata.
Chi fischia si sente minacciato? Da che cosa si sente minacciato? E' pertinente la replica a quei fischi con le uscite di questi giorni (p.e. di Andrea Riccardi su "Avvenire" di martedì 27 settembre o del segretario della Cei, monsignor Giuseppe Betori), che sottolineano, invece, il fatto che a essere sotto minaccia sia la Chiesa? Davvero quei fischi dicono che alla Chiesa non deve esser riconosciuto il diritto di parola?
Credo che il ragionamento da fare sia molto diverso e non riguardi questioni dottrinarie, ma politico-sociali. In breve sia fuori misura chi parla di diritto di parola leso o di statuti teorici della laicità. Non che quei temi siano impropri, ma credo sarebbe più utile se ci si attenesse al concreto. Che cos'è il concreto, in questo caso?
La Chiesa da almeno un ventennio ha seguito una scelta politica che risale al pontificato di Wojtila e che si riassume nella difesa della società civile contro lo Stato. All'inizio era la scelta degli oppressi contro il potere (secondo il paradigma degli autoritarismi dell'Est Europa); poi fu la trasposizione nel contesto italiano dello stesso conflitto: quello della ribellione della società civile contro la mafia e la corruzione (secondo una continuità di linguaggio che andrebbe analizzata tra anni '80 e anni '90). Infine la costruzione di una società civile virtuosa che si propone come atto politico. E' il profilo della indicazione di non voto nel maggio scorso ai quesiti referendari.
A partire dalla seconda metà degli anni '80 la Chiesa ha iniziato a svolgere un ruolo pubblico, a operare praticamente nel sociale il cui effetto è fondare un'etica pubblica che si sostiene e rinvia specularmene a una crisi della laicità e il cui successo si misura su quella crisi.
Certo il ritorno e il maggior peso dello spirito religioso nelle istanze pubbliche e nei comportamenti collettivi rispetto a due decenni fa è innegabile. Ma questo aspetto non indica la crisi della laicità. Nella storia italiana si è dato storicamente un cattolicesimo liberale che non ha mai contrapposto istanza religiosa e istanza politica e non ha mai pensato la prima prevalente sulla seconda.
Ciò che è venuto progressivamente meno negli ultimi venti anni è il rapporto tra cittadino e Stato sul piano delle agenzie di solidarietà, di assistenza, di formazione. Diversamente: i servizi alla persona hanno espresso il ritiro progressivo di una sfera pubblica e la prevalenza di offerta proveniente dal sistema assistenziale e sociale non solo privato, ma sempre più spesso legato al mondo dei patronati cattolici, delle confraternite.
Non è in discussione l'efficienza, la capacità, il radicamento sul territorio, il successo. Ciò che però discende da questo deciso spostamento di competenze è il fatto che esso si struttura in una contemporanea e progressiva delegittimazione del servizio pubblico alternativamente considerato inefficiente, incompetente, inadeguato. Soprattutto irreformabile.
La crisi della laicità è questo prima di tutto: crisi e sfiducia nei confronti di ciò che è pubblico e di un suo possibile miglioramento e, per converso, fiducia e soprattutto affidamento di sé non solo al circuito privato, ma soprattutto nell'ambito dei servizi alla persona al sistema assistenziale dei circuiti religiosi. In breve la laicità assimilata alla sfera pubblica è percepita come assenza di servizi in opposizione a quella religiosa percepita, invece, come capacità di erogazione di servizi.
Il che può anche essere interpretato come una rivincita del cosmo religioso su un piano utilitaristico, insomma di una riscoperta di Dio senza vocazione. Ma così non pare. Perché alla lunga la reiterazione e il consolidamento del successo dicono invece di una risorsa in più sul piano dell'efficienza e della capacità. Così se all'inizio il ritorno al religioso come organizzazione di un altro "Stato sociale", non implica un'adesione per fede, la consuetudine produce fede e anche affidamento di sé.
L'effetto è devastante. La laicità, prima ancora che sul piano ideologico, perde sulla dimensione degli affetti, sulle premure. La laicità diventa indifferenza, mentre il sentimento religioso è identificato con "farsi carico", prendere cura". La laicità perde così sul suo stesso terreno culturale e morale: quello della responsabilità. E, per converso, si torna verso il religioso non perché si crede, o perché religioso "è bello", ma perché è "vicino", perché soffre con ciascuno di noi in quella quotidianità che le strutture pubbliche, o altre forme dell'assistenza civile non religiosa, non sanno assumere su di sé. Talora perché queste ultime non hanno riti adeguati.
Qui sta la crisi della laicità e a questa questione non sarebbe improprio trovare risposte che ricostruiscano nel tempo una rete di fiducia. La crisi della laicità non è un fatto ideologico. E' prima di tutto un fatto pragmatico. Riguarda i comportamenti non le convinzioni. E' banale dirlo? E se questa non è un'osservazione impropria non sarebbe il caso di derubricare l'argomento della minaccia e affrontare con pazienza - diciamolo: laicamente - il riassetto dello Stato sociale?
(bellissima riflessione, ma avrei concluso cosi')
affrontare con pazienza e passione civile - diciamolo: laicamente - il problema della fiducia reciproca tra cittadini e stato?
(mi sembra evidente cosa intendo, ma per chiarire meglio: se chi comanda da esempio di arroganza, non paga le tasse, propone condoni su condoni, ecc... se il cittadino non fa altro che cercare di incu*** lo stato, si lamenta appena puo', ecc... se autorevoli cittadini anche di altri stati preferiscono la guerra al dialogo... se i principi della costituzione o di civica morale vengono calpestati ad ogni pie' sospinto... direi che non ci siamo.)