Scioperi
di Gabriele Polo
Strani incroci di destini: ieri un milione e mezzo di metalmeccanici hanno scioperato per il contratto di lavoro. Oggi e domani 40.000 giornalisti scioperano per lo stesso motivo. La parola «contratto» mette l'una accanto all'altra due categorie che non potrebbero essere più diverse: la differenza tra una pressa e un computer è evidente a tutti, come lo è la sensazione che si prova di fronte a quei due strumenti di fatica o le buste paga che ne derivano. Eppure le tante differenze che segnano i lavori del XXI secolo celano alcuni tratti comuni, perché in fondo un metalmeccanico in affitto e un giornalista free lance condividono analoghe incertezze per il proprio futuro, o si arrampicano «insieme» nella speranza che essendo più scaltri del proprio compagno di officina o di redazione il domani gli si spalancherà radioso innanzi. Non è affatto curioso che le ragioni sindacali a monte di questi due scioperi siano le stesse, che Federmeccanica parli lo stesso linguaggio della Fieg. «Proposte salariali ridicole», hanno dichiarato Fim, Fiom, Uilm; «aumenti inaccettabili», ha detto la Fnsi. E anche sul terreno delle condizioni di lavoro i grandi editori di coloratissimi media vogliono le stesse cose dei padroni di grigissime acciaierie: massima flessibilità di inquadramento, orari e prestazioni.
Curioso è, semmai, che i metalmeccanici, per diventare una notizia, debbano occupare i binari di una stazione e i giornalisti per «esistere» devono non far uscire i giornali che quella notizia la sbrigano in dieci righe. Paradossi del mercato: perché da un lato metalmeccanici e giornalisti vivono nello stesso mondo (fanno i conti con lo stesso processo), dall'altro sono divisi e messi l'uno contro l'altro.
Non bastano la crudele legge 30, la «crisi» economica o l'antica divisione sociale del lavoro a spiegare coincidenze e separazioni. Queste sono poco più che «sfondi» o «circostanze», seppur rilevanti; valgono quanto i sacrifici annunciati da Berlusconi, il bonus-nonno o la tassa sul tubo. C'è qualcosa di più profondo, perché quella che Marx chiamava «equivalenza» del lavoro si è oggi trasformata in appiattimento frantumato delle prestazioni e la marxiana riduzione a merce dell'attività umana è mutuata nel tentativo di mercificazione dell'intera esistenza e di tutto il suo habitat. Un annichilimento delle condizioni che produce nuove resistenze e nuove intelligenze, cui dovremmo guardare con fiducia.
Quella con cui facciamo questo giornale da 35 anni, senza un editore. Cosa che ci dà la libertà di non ridurre la condizione del lavoro subordinato in una breve di cronaca o di scegliere di scioperare solo per una scelta di solidarietà con gli altri giornalisti, come abbiamo fatto a giugno. Ma come non faremo oggi e domani, perché sabato e domenica troverete il manifesto in edicola, anche se condividiamo tutte le ragioni che portano gli altri colleghi a non lavorare. E' la nostra condizione che ci impedisce di farlo, per esistere senza avere padroni: un lusso vitale cui non vogliamo rinunciare.