Povera stampa
di FRANCO CARLINI
C'è una oggettiva pesantezza dei numeri dietro questo sciopero dei quotidiani. Sono cifre che spingono, anche strumentalmente, gli editori a fare i duri e il sindacato dei giornalisti a fermare le rotative, tranne quelle del manifesto, padrone di se stesso. I numeri, che riportiamo all'interno, dicono non già di un'erosione, ma di un tracollo delle copie vendute, non solo in Italia, ma in tutto il mondo, con l'eccezione di alcuni paesi di recente quasi democrazia dove ancora c'è l'entusiasmo per il pluralismo e per la battaglia politico-civile. A questi dati di solito si risponde tirando in mezzo i giovani: che non leggono nulla, che guardano la televisione (più Mtv che Vespa, per loro fortuna) e navigano sull'internet. Che hanno una cultura tutta e solo visiva ed effimera la quale, per sua natura, non si incontrerebbe con la parola scritta e meno che mai con quella stampata sui quotidiani. La diagnosi è solo in parte vera e comunque ingenerosa verso una generazione che troppo facilmente viene giudicata vuota e senza valori. Comunque da questa diagnosi un po' tutti frettolosamente derivano la terapia che allora occorre adeguarsi a quel linguaggio, vieppiù semplificando, gridando, colorando e magari «andando in rete».
Banale la diagnosi e fasulla la terapia, almeno nelle versioni correnti. Ai fattori di crisi profonda dei giornali e del giornalismo, per intanto va aggiunta la progressiva perdita di senso civico dei giornalisti. Con tutte le importanti eccezioni del caso, in Italia come a New York non si sfugge al malessere di un giornalismo per lo più orientato dall'agenda dei poteri, la quale viene subita talora per vocazione (cioè ben volentieri) e più spesso con rassegnazione. Lo si vede nella gerarchia dei temi, nel linguaggio, nelle pratiche concrete di costruzione delle pagine. Non avviene da oggi, e non dipende solo da Bush o, si parva licet, da Berlusconi. Probabilmente dipende da un collasso più generale dello spirito civile e anche dell'indignazione («la schiena dritta» auspicata dal presidente Ciampi). Non i soli giornalisti ne sono responsabili, ma anche loro - anche noi - hanno fatto la loro triste parte.
Quanto alle terapie multimediali e digitali, senza dubbio hanno un senso, ma guai a illudersi che si tratti solo e semplicemente di un altro canale, colorato e cliccabile, cui aggrapparsi perché così va il mondo giovane. Agli editori e ai giornalisti dovrebbe essere chiaro che paradossalmente l'enorme disponibilità di notizie, informazioni e conoscenze in rete, spontaneamente prodotte da lettori che si fanno essi stessi autori, implica pesanti conseguenze per la stampa, di inchiostro o di bit che sia.
La prima è che i giornali devono essere fatti molto meglio, dato che i lettori possono farne a meno e ci frequenteranno solo se offriamo più qualità. La seconda è che diventa sempre più importante il ruolo dei mediatori di conoscenze: il cosa è successo lo si sa, mentre il come e il perché anche in rete restano dei misteri e richiedono intelligenze umane e cultura. Tutto questo, occorre dirlo, costa: i computer e le memorie dei dischi si comprano a basso prezzo, ma un'analisi ben fatta può richiedere almeno due giorni di lavoro specialistico che costano (quanto costa uno stipendio dignitoso di un essere umano). Chi pensasse di fare giornalismo online con contratti saltuari e sottopagati (20 euro a pezzo) si illude: decidano se investire oppure no, e lo dicano.
L'altra conseguenza del digitale è che non lo si può fare spostando nel canale di rete contenuti e formati pensati per altri media: chi ha cercato di vendere sui cellulari articoli di giornale a 30 centesimi (quando il giornale di carta ne costa 90) dovrebbe essere licenziato per incapacità di annusare il mercato. Eppure l'hanno fatto e lo fanno, costruendo apparti contrattuali assurdi e sprecando risorse. Chi si mette a fare informazione e giornalismo di rete deve infine sapere un'altra cosa: che il valore sta sia nella qualità dei contenuti che nella qualità dell'interazione e del dar voce. Non è populismo, ma tecnologia abilitante: abilita le persone a prendere la parola, e questo viene apprezzato. Anzi le ri-abilita, nel senso che restituisce alle persone delle possibilità che una volta avevano e che di recente sono state loro negate.
Esprimo un parere da conservatore: ognuno faccia il suo mestiere.
La deriva dei giornali è iniziata quando hanno cominciato a sentirsi in concorrenza con la tv, imitandone la superficialità e le notizie urlate.
Ora è il momento dell'informazione, e dei blog che sono + letti delle edizioni online dei quotidiani.
Eppure, mai come in questo periodo è stato possibile accedere a così tante informazioni, e lanmentarsi nel contempo perché le fonti sono irregimentate.
Cos'è che manca: l'analisi critica? La possibilità di testare quanto ci bombarda quotidianamente? O la possibilità di non scrivere solo per se stessi?