1945, la vera colpa di tutto quel sangue
di Bruno Gravagnuolo
Chi ha paura del lato oscuro della Resistenza? Dei capitoli bui con al centro controrappresaglie e vendette consumate anche dopo il 25 aprile, dopo un biennio feroce innescato dalla volontà del fascismo di continuare la guerra accanto ai nazisti? Non certo la sinistra, che da oltre un quindicennio ha guardato con coraggio all’intreccio di stalinismo e rancore sociale che segnò il cosidetto «triangolo rosso» in Emilia. E la cui storiografia ha da anni intrapreso un’opera di riconsiderazione critica di tutti quei fatti. Ben vengano perciò denunce e provocazioni come e quelle lanciate da Giampaolo Pansa. È una sfida da accettare. E tuttavia, ricordate «il mezzo è il messaggio» di McLuhan? Nella teoria del sociologo canadese significava che il contenuto della comunicazione sta negli «strumenti del comunicare», nel mezzo. Nella capacità di formare un’immaginario condiviso e avvolgente, tra chi trasmette e chi riceve. Detto più banalmente, conta più il modo in cui si comunica, che quel che si comunica. Ed è in quel «modo» la verità del contenuto. A tale evidenza profetica, invasiva nell’era dei media e della storiografia mediatica, vien perciò fatto di pensare, dopo aver letto le duemila pagine della quadrilogia Sperling& Kupfer di Giampaolo Pansa, formata da I figli dell’Aquila, Il sangue dei vinti, Prigionieri del silenzio fino a Sconosciuto 1945 (pagg. 476, Euro 18) ultimo suggello dell’attuale stagione memorialistica «riparativa» del giornalista-scrittore di Casal Monferrato.
Perché in Pansa il mezzo è il messaggio? Non solo per la maestria di cui l’autore e l’editore danno prova, nel trasformare ogni uscita in evento polemico. Con paginate, interviste e anticipazioni in simultanea (un must a cui i più si piegano senza ovviamente aver potuto elaborare un meditato giudizio). Ma per un altro motivo, più specifico, connesso proprio all’indole «passionale-riparativa» di questa produzione di Pansa. Il «mezzo è il messaggio» sta nel fatto che la narrazione prevalente, specie in Sangue dei vinti» e Sconosciuto, è nient’altro che un continuo piano-sequenza, con macchina fissa, su un lungo rosario di eventi delittuosi. Di assurde vendette e cieche eliminazioni di avversari, o presunti tali. Una moviola degli orrori e degli errori. Che ingigantisce a dismisura e dilata iperrealmente una verità parziale. Erigendola di fatto a dominante di un intera fase storica e a sua autentica filigrana, colpevolmente «rimossa». Sicché l’effetto perseguito, dall’interno stesso della messa in forma espressiva, non è capire, spiegare. Confrontare, verificare, inquadrare. Bensì denunciare, muovere a compassione, suscitare ripulsa morale. Fare scandalo. Calamitando l’attenzione del lettore sull’assurdo, sull’irrazionalità occultata o persino rivendicata in passato dalla «memoria ufficiale della Resistenza». Insomma avrebbe detto il Croce, è la storia ridotta «sotto il concetto dell’arte». O della morale. Suggestiva, ma mai rischiaratrice. Contundente ma mai, o quasi mai equanime e realmente pacificatrice. Al punto da cadere essa stessa nella trappola di quel concetto di «guerra civile», di cui Pansa fa uso molto generoso e acritico, e da cui Pansa vorrebbe pur uscire tramite i suoi resoconti. Trappola che sta nell’alimentare all’infinito il risentimento, nel tentativo di riparare i torti subiti.
L’impiccagione di Solaro
Facciamo alcuni esempi. La vicenda del federale Solaro di Torino, impiccato, portato in processione e scaraventato nel Po il 30 aprile 1945. Pansa fa parlare le due figlie che come in altre migliaia di casi (di fascisti uccisi) gli scrivono, dopo l’uscita del Sangue dei Vinti. Pagine di alta intensità emotiva, che certo inducono alla pietà e al rispetto per esistenze fragili: le figlie, sopravvissute ai fatti nel dolore incancellabile. E allora a freddo ci si può chiedere: potevano gli insorti essere più miti? Non consentire in alcun modo lo scempio del cadavere, come a Piazzale Loreto del resto? Certo che sì. E nondimeno Pansa - che pur conosce bene certe vicende - poteva ricordare che Solaro fu venduto da un suo camerata. Che fu ferocissimo e determinato, con le impiccagioni, le deportazioni (20mila da Torino). E che proprio Solaro ordì in grande stile quel cecchinaggio che durante la liberazione di Torino causò più di trecento morti (320). E avrebbe potuto ricordare Pansa, che certe cose le ha studiate, la Torino martoriatissima nel 1922 dai fascisti delle squadracce assassine di De Vecchi e Brandimarte. Al cui esempio si richiamava il coerente federale Solaro, fascista «di sinistra» e capo delle Brigate nere nei mesi finali. E le Brigate nere? A leggere Pansa sembrano la guardia forestale. Con gente che vi si trova arruolata solo per caso, il che in certi casi è vero. E però le brigate furono la punta di diamante repressiva di Salò, volute dall’ultras Pavolini e per statuto «volontarie». Il Cvl aveva ben per questo diramato l’ordine di giustiziare i suoi capi, anche perché lì c’era il nerbo dei persecutori, con attorno una rete di spie, delatori, sadici, di volenterosi carnefici delle Ss (con tanto di tesserino Sicherheit Dienst). E per tornare al capoluogo piemontese: fu il più colpito dalla repressione. Era l’avanguardia della guerra di Liberazione. E anche guardando a Torino, un dirigente equilibrato e riflessivo come Amendola scrisse su l’Unità : «Pietà l’è morta».
Ebbene, vogliamo ricordarle queste cose per onestà? Oppure basta dire burocraticamente, come spesso fa l’autore: «Queste cose le ho scritte altrove»? No. La storia è sempre intera, va raccontata tutta e in simultanea. E il «contesto», sulla cui mancanza nei suoi libri Pansa volentieri ironizza, è decisivo a fare testo. Altrimenti si deformano le cose. Andiamo avanti. Pansa dichiara di aver verificato tutte le storie sugli sconosciuti e gli uccisi raccontategli dai parenti. Nessun dubbio sulla verità soggettiva delle testimonianze. Ma l’autore ha davvero controllato gli antefatti, le testimonianze, le altre campane? Qual era lo sfondo reale di certe vendette incomprensibili? Che cosa era successo nel Ravennate, nel Reggiano o nel Polesine venti anni prima, con le lotte agrarie, la repressione dei braccianti e dei mezzadri? E quali catene di rappresaglie e massacri nazifascisti con cadaveri esposti costellano quei luoghi, prima o durante e le vendette partigiane? Prendiamo il ravennate: solo lì 427 vittime civili di rappresaglie. E memorie di carognate passate, che avvelenevano l’aria già incendiata dalle stragi e dalle prepotenze collaborazioniste. Perché quindi - di là dei brevi cenni - non ricostruire per un minimo di scrupolo tutti gli antefatti? Sia pur nella giusta esecrazione per le misteriose e ingiuste morti dell’ingegner Gobbato all’Alfa di Milano (costretto a buoni rapporti coi nazifascisti) o dell’ingegner Matteucci a Massa Lombarda forse eliminato per vendetta sociale? Pansa replicherà: io voglio solo documentare, risarcire. Ma farlo così è distorcere, deformare. Benché non ci sfugga ad esempio il vivido quadro sociale che certe pagine lasciano intravedere. Fatto di capi di famiglia fascisti, ferrovieri, impiegati, tecnici, insegnanti, maestre, giovani del littorio, trascinati casualmente nella follia della «guerra ai civili» nazifascista (non guerra civile: anche la «zona grigia» era per la liberazione ).
Restano, pur avulsi dal contesto, gli episodi macabri, ingiusti e inesplicabili. Attorno ai quali Pansa costruisce tanta parte del suo ultimo libro. I 57 eliminati tra Ferrara e Rovigo. Impiegati, semplici militari, catturati ed eliminati secondo i carabinieri con le mani legate e a bruciapelo «per motivi politici», a maggio inoltrato del 1945. I 99 di Oderzo uccisi al Ponte della Priula sul Piave, ufficiali Rsi o soldati, i cui esecutori, difesi dal Cln locale, vennero processati e condannati a pene lievi, in virtù dell’amnistia. Massacro che fa il paio con i 50 prigionieri e passa del carcere di Schio. I cui responsabili - che Togliatti non aveva voluto ricevere a Roma - condannati in contumacia, vennero fatti fuggire in Jugoslavia. Forse grazie alle coperture di un Pci sotto attacco da sinistra e dal lato azionista, perché accusato di favorire la restaurazione pacificatrice. E di nuovo: gli omicidi del triangolo rosso. Quelli della vera guerra civile e sociale, pari a 5mila. Ma attribuibili più a vendette e raid di bande che presero di mira non solo fascisti, ma sacerdoti (31 di cui 5 cappellani Rsi) e un centinaio di proprietari terrieri, visti come affamatori e finanziatori delle squadracce fasciste.
L’anarchia civile
Perché tutto questo? Quale l’unitario filo tragico che lega tanti eventi ripugnanti? Non un «metodo» nella follia. Né propriamente una «guerra civile». Ma l’anarchia civile. La degenerazione antropologica del tessuto sociale indotta dalla «guerra ai civili» nazifascista. Una scissione nucleare a catena. Che portava con sé un corteo di microrappresaglie e vendette in un’Italia imbarbarita e anarchica che la Resisteza ufficiale non aveva modo di controllare né di sanzionare, malgardo proclami durissimi in tal senso. Aggravò il tutto l’amnistia voluta da Togliatti, che gettò un colpo di spugna generale su crimini dell’una e l’altra parte. Scontentando un partigianato che veniva ingiustamente epurato, ed esponendo lo stato nuovo al riciclaggio e alla revanche di tanto personale fascista. Occorreva dunque distinguere. E non allargare a dismisura le maglie della clemenza. Col risultato ad esempio che i delatori a pagamento degli ebrei a Roma furono condannati per furto o solo per «torture particolaramente efferrate». Non già per correità nelle eliminazioni naziste!
E adesso un po’ di cifre, visto che son decisive per un serio inquadramento storico. Nell’ottobre 1946 la Direzione generale di Ps, fonte non certo resistenziale, parla di 9.519 esecuzioni di fascisti. Mirko Dondi, studioso serissimo, di 9.911. Woller, altro studioso serio, di 12mila. Un numero enorme ma lontano dai circa 20mila giustiziati indicati da Pansa nel Sangue dei Vinti. Dall’altra parte, e senza troppi contrasti tra le varie fonti: 26mila caduti in armi, 9180 vittime civili di massacri e fucilazioni. E tra il 25 aprile e il 1 maggio 1945, 4mila caduti partigiani proprio nell’istante della Liberazione! A dimostrazione del clima tutt’altro che facile quando i partigiani scesero dalle montagne al segnale convenuto: «Aldo dice 26x1». Il che spiega in parte anche la ferocia della resa dei conti, per metà almeno dotata di parvenza legale contro i collaborazionisti, con le armi in pugno o ancora calde. E infine: gli 8mila deportati ebrei. Di cui solo poche centinaia tornarono dai campi. Di loro nemmeno i corpi si trovarono, e ad avviarli alla morte furono anche quelli dell’altra «idea di patria» e della «difesa dell’onore», (squagliatisi il 25 luglio e per lo più allora incolumi).
In conclusione, se si pensa al volume della repressione contro quelli di Vichy in Francia, non è azzardato dire che in Italia - in quell’Italia segnata anche da anarchia di bande e liquefazione del potere legittimo - a prevalere fu ufficialmente la clemenza verso i fascisti (40mila liberati nel 1946 e 91 condanne a morte eseguite). Clemenza secondata dall’amnistia di Togliatti che eccitò feroci propositi sovversivi, da Togliatti stesso subito repressi. E che consentì a molti delatori di farla franca, a molti giudici e funzionari di riprendere il loro cursus honorum, e persino a tanti repubblichini di venir riciclati come esperti di operazioni segrete all’ombra della guerra fredda (è il caso di Borghese). E allora parliamo del sangue dei vinti. Aiuta a capire e a guardarsi dentro. Ma quello dei «vincitori» fu molto di più. E senza le colpe di una parte tutto quel sangue non sarebbe mai scorso.
Da applausi, quello che nessuno dice mai a Pansa, inspiegabilmente.
Non sono d'accordo con le critiche a Pansa.
Pansa è uomo di sinistra. Ha scritto su giornali di orientamento progressista.
Non lo si può accusare di unilateralità, in quanto in passato ha scritto opere sulla Resistenza.
Ma Pansa è anche e soprattutto uno storico, non un politico.
Compito dello storico è informare.
Non era necessario che ribadisse concetti perfino ovvi sulla Resistenza nei suoi ultimi volumi, dal momento che ne ha approfonditamente trattato in altre opere precedenti e che in questo caso non erano pertinenti alla specificità dell'argomento.
Pansa non è un revisionista. Non è Pisanò certo, ma nemmeno De Felice. Nei suoi volumi non si trova una che una parola di giustificazione, difesa o attenuante nei confronti dei fascisti. Non parifica proprio un bel niente.
Il problema che a mio avviso molti non capiscono è che portare alla luce le pagine nere della resistenza non significa assolutamente "riabilitare", nemmeno in minima parte, Salò. Significa svolgere il proprio ruolo di storico con una visione più ampia e meno agiografica.
Anzi credo che Pansa renda un importante servigio anche alla storia della resistenza stessa. Il poter divulgare senza timori anche i lati oscuri di quell'esperienza è utile. Utile a liberarsi dai fardelli di retorica, di santificazione, utile a eliminare quell'aurea di "religione di stato", veneranda e intoccabile che da 60 anni la avvolge e che provoca accuse di apologia e malafede a chiunque provi a esprimere pareri non ortodossi: l'acqua ideale dove hanno nuotato i pesci revisionisti.
Che un uomo di sinistra come Pansa, al di sopra di ogni sospetto di apologia, divulghi queste cose, contribuisce ad avere una visione più completa e matura, e quindi anche più credibile, di quei fatti. Se la sinistra avrà il coraggio di portare alla luce senza reticenze anche quegli episodi, fermo restando il giudizio di fondo sulle differenze, i torti e le ragioni, che non appare in discussione, darà prova di maturità, di sicurezza e di volontà di guardare avanti, togliendo parecchio fiato alle trombe dei revisionisti.
Invece mi sembra che ancora una volta stiano scegliendo la linea della "lesa maestà".
Riconosco a Pansa il coraggio di aver documentato fatti "scomodi", dando voce ai vinti per la loro versione, senza per questo doversi dichiarare sostenitore.
Al desiderio di Bruno Gravagnuolo per una "storia intera e raccontata in simultanea" vorrei rispondere con un esempio, applicato da alcuni coraggiosi insegnanti israeliani e palestinesi, che hanno redatto un manuale di storia per le loro scuole: "La storia dell'altro".
Si tratta di due narrazioni, due "verità", che corrono parallele nella stessa pagina: l'edizione italiana è uscita con la presentazione di Walter Veltroni e la prefazione di Pierre Vidal-Naquet.
Non pensa che da noi sia mancato per troppi anni questo libero confronto?
Perché dunque criticare chi, dopo aver narrato i punti di vista dei vincitori, inizia con onestà e rispetto ad ascoltare i vinti?
signori, se pansa e' "uno storico" e da' la voce ai "vinti" io sono un fisico nucleare in odore di nobel.
Non credo che Pansa si consideri uno "storico", ma che indaghi su argomenti storici, sì.
Se poi un "odoroso tuttologo(non fisico nucleare)quasi nobel" non voglia considerare i suoi ultimi lavori orientati a dare voce ai "vinti", mi chiedo in quale altro modo li possa definire.
Secondo me Pansa continuerà (giustamente)finchè dall'altra si continuerà a cercare di coprire cose, ad indignarsi etc. (e l'ANPI ha fatto gran brutte figure).
Il giorno in cui si ammetterà tranquillamente quello che è successo (la qual cosa non cambia per nulla il giudizio sul fascismo e sui repubblichini) la polemica morirà.
Se proprio devo dire il mio parere penso che quando c'è uno scontro (guerra civile?) le due parti più estreme finiscono per attirare tutta la feccia e gran parte dei violenti. Il che, ovviamente, non muta i giudizi storici.
L'aver difeso a lungo (con l'omertà o con le parole) una serie di senguinari che militavano nella resistenza non ha sicuramente giovato alla causa che si voleva sostenere. Ha finito col far pensare a molti che sotto ci fosse del marcio o qualcosa di inconfessabile.
Quanto ai repubblichini, bah, penso che la maggior parte fosse una masnada di delinquenti.
Tra l'altro un vecchio amico di famiglia mi raccontò che il cugino, ucciso dai partigiani, aveva scelto con la moneta da quale parte combattere..e questo la dice lunga su molti di quelli che nel combattere ha fatto qualcosina più del "normale"..
I diessini hanno paura della verità. Ad una conferenza sulle foibe tenuta in una sede di Villa Bonelli hanno parlato delle colpe dei fascisti e le foibe le hanno solo nominate di sfuggita.
Era ora che qualcuno avesse il coraggio di parlare dei caduti della rsi, anche loro credevano in un'ideale, una patria, e per questo sono stati massacrati senza un regolare processo. E vero che anche durante il regime fascista sono state fatte delle atrocità, ma sono state tutte ricordate, con cerimonie tumulazioni parate discorsi e consacrati eroi, ma ricordiamoci che i caduti della rsi non hanno avuto ne processi ne sepoltura ne riconoscimenti e i loro parenti hanno vissuto per anni nel terrore di fare la stessa fine dei loro congiunti e hanno vissuto anni di stenti e di vergogna, dovremmo vergognarci noi tutti capaci di amnistiare terroristi e non di riconoscere dei soldati trucidati e morti per la patria, la nostra stessa patria che esalta all'esasperazione la lotta partigiana (molte volte di comodo) e rifiuta una degna sepoltura agli stessi fratelli italiani morti per un'ideale.