David Irving in carcere: inneggiava al Führer
di Bruno Bongiovanni
La notizia, pur diffusa in ritardo, è di quelle che non passano inosservate. Da un’agenzia battuta nel pomeriggio di ieri, risulta che il pubblicista britannico David Irving, definito dall’Ansa «estremista di destra che nega l’Olocausto», è stato arrestato l’11 novembre scorso a Hartberg, in Stiria, sulla base di un mandato di cattura spiccato dal tribunale di Vienna sin dal lontano 1989 per «sospetto» reato di apologia di nazismo e in particolare per avere violato il paragrafo 3 della legge austriaca contro il «revivalismo» nazista. Grande è stata la discrezione della giustizia austriaca.
La notizia è infatti diventata nota quando è apparsa sul sito web dello stesso Irving. Il quale, a quel che pare, stava recandosi a un raduno dell’associazione studentesca, a carattere politico-goliardico, «Olympia». È una di quelle associazioni, un tempo assai più numerose, il cui scopo primo consiste nell’effettuare grandi bevute di birra e il cui scopo secondo, in un mondo che si avvia alla globalizzazione e in un’Europa che nessuna «devolution» può mandare in frantumi, consiste nell’inneggiare ad un anacronistico pangermanesimo. Sino a che qualche giovanotto, più ubriaco degli altri, si mette a strillare, nell’entusiasmo generale, «Heil, Hitler». A Irving piacciono evidentemente questi raduni. Non è questo, tuttavia, il primo infortunio occorsogli.
Nell’aprile del 2000, nell’aula 37 dell’Alta Corte di Londra, il giudice Charles Gray, interprete di un sistema giuridico più attento all’evidenza del fatto commesso che all’autorità del diritto positivo, aveva emesso contro di lui un singolare verdetto. Da quel momento sarebbe stato possibile, non solo alla studiosa americana Deborah Lipstadt, e alla casa editrice Penguin Books, definire David Irving, che aveva improvvidamente citato in giudizio e l’una e l’altra, «razzista» e «negatore dell’Olocausto». La britannica common Law aveva dato evidentemente ragione al positivismo giuridico austro-tedesco, anche se allora, nel 2000, nessuno riferì del mandato di cattura emesso a Vienna undici prima e solo pochi giorni fa reso operativo.
Il dibattimento, nel 2000, a Londra, era del resto andato ben oltre i limiti di una banale querela. Aveva coinvolto la storia della seconda guerra mondiale e della Shoah. Tanto che il governo israeliano, evento senza precedenti, si era risolto a rendere pubblici i sino ad allora inaccessibili diari di Adolf Eichmann. In tali diari si riconosceva la gigantesca e criminale realtà dell’Olocausto. E se ne addossava la colpa non unicamente a piccoli e grandi esecutori periferici, ma al partito e al governo nazionalsocialisti nella loro interezza. Lo Stato d’Israele, pressato dalla risonanza mediatica dell’evento, aveva cioè sentito la necessità di esibire un documento prodotto in partibus infidelium, evento di per sé positivo per la comunità degli studiosi, al fine di rendere inoppugnabile ciò che da tempo era inoppugnabile: non tanto lo sterminio degli ebrei, quanto la programmazione politica, ideologica e scientifica di tale sterminio. David Irving, da tempo idolo dei neonazisti e dei cosiddetti «negazionisti» (i quali si autodefiniscono «revisionisti» e «revisionisti» dunque devono essere definiti), aveva infatti individuato in Auschwitz, negli anni precedenti, nient’altro che una «Disneyland per turisti». Aveva inoltre sostenuto che non esisteva la prova documentaria dell’ordine fornito da Hitler in merito alla Shoah (questione peregrina che lo storico Ian Kershaw ha delucidato in modo definitivo), così come non esisterebbero prove certe, sul terreno dell’architettura dei Lager, delle avvenute gasazioni (questione su cui è odioso persino soffermarsi per confutarla). Era tuttavia proprio l’architettura dei lager il vero cavallo di battaglia dei «negazionisti-revisionisti» francesi, statunitensi, italiani, tedeschi, ecc. Dei quali Irving proprio per questo era diventato un idolo.
E lo è diventato soprattutto perché è un personaggio il cui itinerario, assimilabile a una progressiva deriva verso il revisionismo neonazista, è diverso da quello dei gruppi come l’americano Institute for Historical Review. All’inizio Irving si presentava infatti come uno studioso della seconda guerra mondiale e in particolare della condotta militare, nella guerra, di inglesi e tedeschi. Nato a Essex nel 1938, Irving aveva infatti solo venticinque anni quando pubblicò nel 1963 The Destruction of Dresden, un testo destinato a notevole fortuna, tanto è vero che una ristampa della traduzione italiana di tale libro è stata effettuata, ancora nel 1996, negli Oscar Mondadori, con il titolo Apocalisse a Dresda. Altri libri seguirono e crescente divenne l’ammirazione per Irving dei neonazisti di tutti i paesi. Nel 1977 lo stesso Irving diede alle stampe il monumentale Hitler’s War, dove venivano rivalutati minuziosamente i talenti strategici del Führer. Il passo successivo consistette nel tessere gli elogi del regime nazionalsocialista, e poi, sulla spinta dell’entusiasmo delle destre estreme, Irving arrivò a «giustificare» prima, e a «negare» (o, meglio, a «revisionare») poi, l’entità dello sterminio e lo sterminio stesso. Lo storico ruspante, e dilettante, ma non disinformato, divenne insomma, sempre illuminato dai riflettori dei media, un mediocre faccendiere della negazione. Ora, affievolitisi i riflettori, Irving è finito, tra una birra bionda e una conferenza bruna, nelle maglie della giustizia austriaca. Viene quasi il sospetto che si sia recato in Austria apposta. Per ridare di nuovo un po’ di vita al suo stanco personaggio. In tal caso, con questo articolo avremmo fatto il suo gioco. Pazienza. Con i negazionisti-revisionisti non si negozia. E l’opinione pubblica non va tenuta all’oscuro.
può darsi, l'ha detto anche capranica la tg2.
ma questo non cambia di una virgola le obiezioni alle leggi sui reati d'opinione.
con che criterio una certa opinione si merita 20 anni di galera e un'altra, ugualmente campata in aria, è legittima?