Addio a Sylos Labini economista in rivolta
di Bruno Gravagnuolo
Ieri il «corridore tignoso» se ne è andato. Era così che lui stesso si auto-definiva, con civetteria. Ricordando un passato da fondista, in realtà ironizzando sulla sua tigna di avversario implacabile di Berlusconi. «Ero bravo, sa? - ci disse una volta - ma avevo battiti cardiaci troppo forti, e quelli con battiti più lenti da fermo mi fregavano». Chissà, ora che il cuore di Sylos non batte più, in questa piccola confessione autobiografica si può scoprire tutta la personalità di un eminente studioso che era anche un merviglioso e geniale attaccabrighe. Sì, il professor Paolo Sylos Labini non avrà la soddisfazione di vederla, la sconfitta del Cavaliere e del «regime» contro cui combatteva con l’energia di un corridore ventenne. Non risparmiando fendenti a nessuno. Nemmeno a quelli che combattevano dalla sua stessa parte, quando aveva la sensazione di aggiustamenti o timidezze nella battaglia d’opposizione al governo. Eppure Sylos resterà parte integrante della riscossa del centrosinistra in cammino. Alla quale, con tutta la sua autorità di economista spigoloso, aveva dato il «la» tra i primi. Addirittura da prima della sconfitta del 2001. Quando bandì con altri eminenti figure tra cui Norberto Bobbio, un proclama sui rischi della democrazia connessi alla vittoria di Berlusconi. Appello il cui contenuto rivendicava a ogni piè sospinto. Appoggiandosi ai dati dell’Osservatorio di Pavia. A Ricolfi e Mannheimer. Con l’argomento che l’accento messo sul pericolo di «regime» aveva poi fruttato un milione di voti in più al centrosinistra pur sconfitto. Togliendone altrettanti all’avversario.
Fatale dunque che l’attivismo di Sylos si incontrasse con la parabola dell’Unità rediviva, del nostro giornale. Per il quale tra l’altro scrisse pagine e pagine non di invettive. Bensì di riflessioni teoriche. Che replicavano in piccolo tanti suoi capolavori. Da Economie capitalistiche ed economie pianificate al Saggio sulle classi sociali, fino a la Crisi italiana e altri ancora. Pagine su Marx, sul vero riformismo, sulla democrazia, sul liberalismo. Una vera e propria enciclopedia militante, ispirata da un lato alle sue idee di fondo. E dall’altro alla lotta per il programma. Per il rilancio produttivo di un’Italia minacciata dallo spettro «Argentina»: stasi, monopoli, corporativismo, sprechi, default. E patrimonialismo di uno stato ridotto ad azienda privata.
Ma raccontato così Paolo Sylos Labini rischia di apparire soltanto un «girotondino». E Dio sa quanto i girotondi lui li amasse e quanto li vedesse come espressione di un «ceto medio vasto preparato e attento». Non mancando di aggiungere allegramente: «Sono ottimi e i tre quarti sono donne, intelligentissime e anche belle». Semmai però il Professore era una specie di Bertrand Russell dei movimenti. Giustamente. Perché non solo era imprevedibile e divertente. Ma aveva ruvido carisma e autorità. Già, un Accademico dei Lincei con animo libertario e «indignato». Ed era uno spettacolo quando montava sulle furie senza fronzoli. Contro i mali perenni e presenti dell’Italia. Dal fascismo, al Concordato, all’«inciucio», a Berlusconi, alle banche... Un Salvemini redivivo e persuasivo insomma, incavolato e didascalico. Con accento romanesco inconfondibile. Bene, lui se lo poteva permettere, ne aveva i titoli e la storia. Perciò lo stavano a sentire, dovevano sentirlo, anche quelli che «venivano da lontano». Perciò lo stavamo a sentire, anche quando certe tirate contro Marx e Machiavelli, realisti e «violenti», ci parevano un po’astratte e moralistiche (ma non aveva tutti i torti). Perché? Intanto perché era un grandissimo studioso. Il vero decano dell’economa italiana e insieme il padre di un’intera generazione di economisti. Un uomo serio, sempre con dati forti e argomenti alla mano. Con profonda attitudine etica fin dall’inizio, intrisa di illuminismo e «problemismo». Che aveva in odio le fumisterie e gli slogan, i luogi comuni di destra o di sinistra. Un’attitudine la sua maturata già in Italia, quando si laurea nel 1942 in economia. Ad appena 22 anni e con mille dubbi sul fascismo nel quale era cresciuto e del quale il padre lo esortava a dubitare. Poi risolutivo fu l’incontro con Gateano Salvemini negli Usa, al tempo della specializzazione ad Harvard e Cambridge nel 1948, che lascerà un’impronta indelebile nella formazione di Sylos.
È all’ombra del grande esule pugliese e storico del meridione che Labini matura una concezione dell’economia mai sganciata dalla storia e dalla cultura. Per capire l’economia - sostenne sempre - «cultura e storia sono ben più importanti dell’economia». E in Italia a suo avviso, l’onda lunga della civiltà urbana a un certo punto s’era fermata. Era mancata la società civile diffusa, qualcosa di analogo all’Inghilterra e alla Scozia di Adam Smith, o all’America dei Puritani. Tutte cose che il Professore diceva molto prima del celebre studio di Robert Putnam degli anni 90 sulla civiltà urbana assente nell’Italia del sud. E molto prima di Banfield, il teorico del «familismo amorale», fenomeno che aveva condannato il nostro paese all’asfissia di microeconomie locali senza riproduzione allargata del capirtale e senza classi dirigenti. Adam Smith? «Non facciamone un santone liberista - ripeteva - la sua era una lezione di sobrietà risparmiatrice. Di innovazione e onesta trasparenza. Di simpatia morale e umana che faceva della benevolenza, e non dell’imbroglio mercantile, l’occasione per un “utile economico” allargato». Proprio qui il punto teorico di Sylos: l’aumento di produttività su scala globale. L’innovazione, il coinvolgimento dei soggetti produttivi in virtù di un’etica condivisa. E sopratutto l’allargamento del mercato dei beni e dei servizi. Tramite alti salari capaci di stimolare la diminizione del «costo del lavoro per unità di prodotto», grazie alla tecnologia. E qui anche il nucleo fecondo di Sylos, non solo teorico ma programmatico. Di un’impostazione che a ben guardare è oggi quella del centrosinistra: spostare risorse dalla rendita e dal consumo improduttivo al lavoro. Per potenziare la produttività, alzare i salari e incrementare i consumi. In un quadro di tendenziale aumento dell’occupazione, non precaria ma di buona qualità e stabile. Produttivismo e redistribuzione quindi. Ma a condizione di rompere la gabbia endemica, politica e culturale, dei mali italiani. Di cui per Sylos Labini Berlusconi era l'acme.
Il vero precipitato storico e autobiografico di una nazione. Nel senso dell’antieconomia, dell’antipolitica, della degenerazione del costume civico e del trasformismo. Rompere la prigione del berlusconismo, il regime mediatico ed economico. Per far spazio alla nuova economia e alla nuova identità civica degli italiani. Erano questi i chiodi fissi di Sylos. E per tutta la vita cercò di piantarli nel futuro. Con i libri, i «movimenti», le lezioni e le sfuriate. Ma a vederne qualche frutto, il corridore tignoso non ce l’ha fatta per un pelo. Peccato.